I campioni dello sport sono stati celebrati anche dai cantastorie. Tra gli anni ‘30 e gli anni ‘60 del secolo scorso il fenomeno dei cantastorie dello sport era piuttosto diffuso nelle regioni del nord Italia, in particolare in Emilia Romagna, ma anche in alcune regioni del sud. Il cantastorie era una sorta di Omero dello sport, che cantava nelle pubbliche piazze le imprese dei campioni, compresi gli aspetti più privati. Negli anni ‘30 e ‘40 svolgevano la funzione di radio del popolo e nel Dopoguerra sostituirono la televisione, che diventò un bene di consumo solo negli anni del boom economico. Tra 1930 e il1940, il regime mussoliniano li lasciò circolare liberamente perché celebravano i campioni delle imprese sportive, che la propaganda di regime considerava frutto della politica sportiva fascista.

Sino alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, ancora bambini abbiamo avuto la fortuna di vedere gli ultimi cantastorie, prima che la Tv di massa ne decretasse la definitiva scomparsa. Giungevano nei paesini più sperduti del sud, soprattutto quelli montani, provenienti dalla Sicilia, dalla Campania e dalla Basilicata nelle giornate miti di primavera. Il pubblico era costituito prevalentemente da contadini analfabeti, quelli descritti da Rocco Scotellaro ne L’uva puttanella, da Tommaso Fiore in Un popolo di formiche e studiati dall’antropologo Ernesto De Martino. Facevano da contorno a quel pubblico, manovali, garzoni di bottega, falegnami.

Le prime storie riguardavano fatti di cronaca nera, omicidi di mafia, delitti d’onore, poi veniva lo sport: le imprese calcistiche di Meazza e Piola, Fausto Coppi e l’amore proibito con Giulia Occhini, la Dama Bianca, contrapposto alla condotta irreprensibile del cattolico e democristiano Gino Bartali. Erano anni in cui il calcio italiano si era arricchito degli oriundi dell’America Latina di lontane origini italiane o presunti tali, poi italianizzati Schiaffino, Sivori, Altafini e tanti altri. Tenevano banco, nella «cantata» di questi campioni la brillantina, la passionalità amorosa delle loro scappatelle, soprattutto quando il rendimento sportivo era altalenante, attribuibile alle tante «Circe» tentatrici che circondavano gli idoli sportivi, ma poi i cantastorie viravano sulle imprese dei campioni che accendevano la fantasia dei presenti. Alla fine della gratuita cantata di piazza, ampiamente illustrata da scene disegnate a mano su lunghi cartelloni srotolati e illuminati da una torcia tenuta dal cantastorie, seguiva la vendita dei dischi in vinile che riportavano gli episodi cantati in maniera più dettagliata.

Nel variegato repertorio dei cantastorie, accompagnati da violini, chitarre, fisarmoniche, i miti dello sport diventarono i nuovi eroi del popolo e sostituirono le figure più tradizionali, che dal Medioevo alla fine dell’Ottocento avevano animato le storie epiche narrate nelle piazze: i cavalieri, i giullari, i santi, i banditi.

Coloro che innanzi ai cartelloni illustrati ascoltavano la voce dei cantastorie non erano colti, perciò il linguaggio doveva essere semplice e accendere la fantasia dei presenti. Le strofe cantate rappresentavano la sintesi delle imprese sportive di un eroe dello sport come Tazio Nuvolari, il primo campione italiano di automobilismo: «Attenti a Nuvolari/ arriva all’improvviso/ la maschera è di ghiaccio ma dietro c’è un sorriso/ attenti a quel matto in mano ha un volante/ le curve le raddrizza in meno di un istante».

Se Roland Barthes in Miti di oggi considerava i campioni delle due ruote i moderni «eroi del circo nell’antica Grecia» nella prima metà del ‘900 i campioni più amati dal pubblico dei cantastorie, celebrati anche nelle fiere, nei mercati ambulanti e nelle feste paesane, furono i ciclisti: «Girardengo gira inver/ gira forte forte/ che a vederti è un piacer».

Negli anni ‘20 e ‘30 i testi delle canzoni erano riportati integralmente su fogli volanti venduti al pubblico dai cantastorie dello sport al prezzo di una lira. Spesso la parte musicale che accompagnava il testo era ritmato su motivi già noti, riadattato con parole che celebravano il campione. Nel 1953 a Lugano Fausto Coppi vinse il campionato del mondo su strada distaccando il secondo di ben sette minuti. Sul motivo di O Vita. Vita mia il ritornello dedicato all’Airone, come lo chiamava Gianni Brera, così recitava: « Evviva il campion del mondo/ che ha spinto da capo a fondo/ Derijcke è giunto secondo/ sette minuti dopo il vincitor».

Tra i più conosciuti cantastorie del Dopoguerra, autori di fogli volanti che celebravano le gesta dei campioni italiani vi erano «Piazza Marino poeta contadino» come si firmava in fondo ai fogli e Lorenzo De Antiquis. La tragedia dell’aereo che si schiantò a Superga il 4 maggio del 1949 causando la morte dei calciatori del Grande Torino, costituì occasione per invocare l’unità nazionale.

I cantastorie dello sport chiedevano di mettere da parte le profonde lacerazioni tra i comunisti e i democristiani causate dalla violenta campagna elettorale delle politiche del ‘48, come recita un testo di Lorenzo De Antiquis: « Italiani di tutti i partiti/ al di sopra di ogni opinione/ nello sport hanno trovato l’unione/ affratellati dal grande dolor».

A Gastone Nencini, vincitore del Tour de France nel 1960, gli Omero dello sport dedicarono l’ultimo tributo nelle pubbliche piazze. Nel 1965 Felice Gimondi vinse la Grand Boucle aggiudicandosi la maglia Gialla, ma a celebrarlo fu Sergio Zavoli che conduceva Il Processo alla tappa. Negli anni del boom economico il televisore era ormai diventato un bene di consumo di massa e dopo ogni grande impresa sportiva i campioni rilasciavano le interviste in diretta. Per i lunghi cartelloni che i cantastorie srotolavano nelle piazze non c’era più spazio. Anche la loro voce si spense per sempre.