I «campioni» siamo noi. Come omaggiare, plagiare o nobilitare se stessi
Storie/I ritmi e gli spezzoni sonori più razziati di sempre I «sample» sono schegge di suono che hanno fatto la storia del rock e del soul. Sono riff o passaggi di batteria che rivivono in mille canzoni
Storie/I ritmi e gli spezzoni sonori più razziati di sempre I «sample» sono schegge di suono che hanno fatto la storia del rock e del soul. Sono riff o passaggi di batteria che rivivono in mille canzoni
La musica nasce e si evolve anche grazie all’imitazione. Ogni artista si ispira a qualche suo predecessore prendendo in prestito e imitando i suoi modelli. La grande innovazione rappresentata dal jazz fu dovuta al fatto che i musicisti spesso si accaparravano spunti e suoni dai loro colleghi creando degli standard. Si deve arrivare alla fine degli anni Cinquanta per incontrare i primi veri «samples», i campioni, spezzoni musicali estratti da altre composizioni e riarrangiati in nuovi brani. Nel 1956 il rock era ancora in fasce e la produttrice Dickie Goodman con il compositore Bill Buchanan diede alle stampe The Flying Saucer un curioso singolo che assemblava, in quello che oggi verrebbe definito un «mash up», suoni, ritmi e fraseggi di diciotto fortunate canzoni pop dell’epoca, inframmezzate da alcuni brani letti da un attore che richiamavano La guerra dei mondi. Nel 1961 il compositore americano James Tenney creò Collage #1 segmentando Blue Suede Shoes e reinventandola in un puzzle musicale dadaista. La musica stava sperimentando con il taglia e cuci. I Beatles nel White Album ci provarono con l’apocalittica Revolution 9. Era più avanguardia che melodia, ma il terreno era pronto per una nuova fase nella storia del pop che venne inaugurata dal movimento hip hop e aiutata dalle nuove tecnologie. Alla fine degli anni Settanta i primi dj iniziarono a utilizzare i dischi in vinile come basi musicali. Spezzoni di singoli funky e rhythm’n’blues divennero i «breaks», pionieri come Kool Dj Herc, Grandmaster Flash e Marley Marl perfezionarono la tecnica. La prima hit fu Freedom di Grandmaster Flash and The Furious Five che campionava Get Up and Dance del gruppo funky Freedom. Era un punto di arrivo di una tecnica e il punto di partenza di un nuovo universo creativo. I «campioni» oggi sono onnipresenti e alcuni ritmi e spezzoni ormai sono stati utilizzati e riproposti così tante volte da sembrare una sorta di tavola periodica del pop. Schegge di suono che a loro volta hanno un’origine e una storia.
The Winstons – «Amen Brother»
Nessuno si ricorda i Winstons, né il loro pezzo Amen Brother risveglia particolari memorie. Ma quattro battute da questo singolo del 1969 (circa 7 secondi) sono divenute il «breakbeat» più utilizzato di sempre. Esistono più di 1.800 brani che ufficialmente lo contengono così come migliaia di basi, remix e librerie musicali. Venne utilizzato a partire dagli anni Ottanta da gruppi hip hop come Salt-N-Pepa, Geto Boys, 2Live Crew, N.W.A. È approdato poi all’elettronica con gruppi come i Prodigy che ne hanno fatto quasi un marchio di fabbrica. È stato la scintilla da cui sono nati stili come jungle e drum’n’bass. È utilizzato correntemente da deejay di oggi come Skrillex e da post-metallari come gli Slipknot. Questo segmento, oggi definito «Amen break» è una delle pietre angolari della musica campionata ed è parte di un geniale assolo suonato dal batterista dei Winstons, Gregory Cylvester Coleman. Il brano “Amen Brother” era la B-side del 45 giri “Color him father” l’unica hit della formazione originaria di Washington. Un successo che portò un disco d’oro e un Grammy come miglior brano r&b dell’anno. Fu l’unico acuto per la band che venne presto dimenticata. Coleman non ricevette mai un soldo per l’utilizzo del suo frammento ed è morto in miseria nel 2006. Né ha mai visto un dollaro Richard Lewis Spencer, leader dei Winstons e titolare dei diritti d’autore del brano. Nel 2011 un dj inglese ha istituito un fondo per riparare a questa ingiustizia, invitando tutti coloro che hanno utilizzato almeno una volta quel celebre segmento a fare una donazione, ma la sua colletta ha fruttato poco più di 20mila sterline.
Ludwig Van Beethoven – «Sinfonia n°5»
Alex di Arancia meccanica lo chiamava il «buon vecchio Ludovico Van» in un mondo futuribile dove Beethoven era considerato una popstar. Previsione azzeccata, visto che il compositore tedesco non solo è stato citato e saccheggiato da decine di artisti rock, ma è stato fonte di ispirazione anche per la cultura hip hop ed è confluito in forma di «sample» in miriadi di brani. La quinta sinfonia nel 1976 divenne un inno funky-dance nell’epoca d’oro delle discoteche grazie al musicista newyorkese Walter Murphy che conquistò tutte le piste da ballo con A Fifth of Beethoven. Il mondo del rap se ne impossessò a partire dagli anni Ottanta con il gruppo dei Fat Boys (Rapp Symphony) e nel curioso esperimento Classical Scratch di una formazione inglese, Mutant Rockers, che utilizzava la tecnica dello scratch sui vinili di musica classica. L’esperimento fu poi ripreso dal gruppo L.A. Posse in Beethoven Scratch. Non solo la Quinta. I Can, il brano più celebre di Nas, è costruito su Per Elisa; i Wu-Tang-Clan hanno campionato la Sonata n°8 nel brano Impossible. Tra gli altri artisti che hanno saccheggiato Ludivico Van: Alicia Keys, Robin Thicke, Busta Rhymes, Tech9ne, Mobb Depp.
Malcolm X – «Message to the Grass Roots»
Non solo musica. La cultura hip hop nacque dai ghetti afroamericani e portava con sé i contenuti di una rivolta sociale e razziale che trovava una importantissima fonte di ispirazione dal messaggio di Malcolm X. L’attivista, che si contrapponeva nei modi e dei temi a Martin Luther King, non conosceva mezze misure nel criticare il sistema americano e le sue idee suonavano ancora attualissime nelle periferie nere degli anni Ottanta martoriate dalla violenza e dalla droga. Le sue parole si ritrovavano un po’ ovunque nel rap della vecchia scuola. Il discorso che è stato campionato più spesso è quello noto come «Discorso ai quadri di base», tenuto il 10 novembre del 1963 in una chiesa di Detroit. In quell’occasione Malcolm X (che venne ucciso meno di due anni dopo) invocò il diritto a considerare la violenza come risorsa e come risposta a una società bianca razzista e violenta. «Non esiste una rivoluzione non violenta» disse. Tra i primi a campionare le frasi del leader nero furono i Public Enemy nel 1987 in uno dei capostipiti della cultura hip hop Bring the Noise (la famosa frase «Too black. Too strong»). Seguirono Jungle Brothers, Epmd, Was not Was, Gangstarr e decine di altri. Fu anche grazie a questa ondata musicale che il messaggio di Malcolm X ebbe una fortissima rivalutazione a più di vent’anni dal suo assassinio.
James Brown – «Funky Drummer»
«Non esisterebbe il rap senza James Brown» ha dichiarato il rapper e star di Hollywood Ice Cube. Ha ragione, ma non si tratta solo dell’immensa influenza stilistica del «Padrino del Soul», si tratta di un dato materiale. Il rap è nato utilizzando come base musicale il ritmo delle sue canzoni. Lo stile contagioso di Brown i suoi fulminanti «drum breaks» sono la radice dell’hip hop. Uno dei fraseggi ritmici più campionati è però tratto da un modesto successo dell’artista. Si tratta di un frammento di Funky Drummer singolo del 1970 che raggiunse solo il 50° posto nella classifica r&b e che fu incluso in un album solo molti anni più tardi. Il «breakbeat» di quella canzone che oggi chiunque appassionato riconoscerebbe, fu ripescato dal produttore Hank Shocklee quando stava lavorando con i Public Enemy. In pochi mesi fu ripreso da ogni dj della scena, comparendo in brani di Run-D.M.C., LL Cool J, The Beastie Boys, Boogie Down Productions, Prince, N.W.A. e chi più ne ha più ne metta. Quel drumming nacque dalle bacchette di Clyde Stubblefield batterista di James Brown, mai troppo celebrato per aver creato alcuni dei ritmi più famosi di sempre. «Ci sono stati batteristi più veloci, batteristi più potenti. Ma Clyde aveva una mano sinistra da cecchino come nessuno tra i batteristi del XX secolo» ha detto di lui il collega Questlove dei Roots. Inutile dire che Stubblefield, che oggi ha 71 anni, si è sentito in centinaia di dischi senza mai godere di royalties. Ammalatosi di tumore, ha dovuto anche affrontare periodi di grandi ristrettezze. James Brown era un genio della musica, ma non ha lasciato un bel ricordo a chi lavorò con lui. Multava i musicisti per ogni imperfezione e dava loro poco credito, poco spazio e pochi soldi. «Per tutti questi anni mi sono chiesto… che fine avranno fatto tutti i miei diritti?» ha detto Clyde in un’intervista.
Fab 5 Freddy – «Change the Beat»
Erano i primi anni Ottanta e New York era in fermento. Rap, breakdance e graffiti stavano creando la base del fenomeno hip hop. Un discografico di origine francese chiamato Jean Karakos che dirigeva la piccola etichetta avanguardista Celluloid Records, decise, in collaborazione con il produttore Bill Laswell, di iniziare a sperimentare con le nuove sonorità e con il rap. Coinvolse Fab 5 Freddy, graffitista della gang dei Fabolous 5 e pioniere del nuovo movimento. La collaborazione diede alla luce, in un’unica serata di registrazioni, a un singolo definito di «elettropop sperimentale» intitolato Change the Beat e che vedeva al microfono Freddy. Per la b-side del singolo si rese disponibile la moglie del giornalista francese Bernard Zekri, collaboratore di Karakos, che incise lo stesso brano in francese in un’unica take. Il singolo sembrava solo un divertissement senza tanto futuro, ma qualcosa di singolare accadde. Nel 1983 il jazzista Herbie Hancock, anch’egli curioso nei confronti del nuovo universo musicale, volle cimentarsi con scratch e campionamenti per il singolo Rock It e utilizzò proprio un frammento del lato b di Change the Beat dove compare una voce modificata con il vocoder. Il brano (accompagnato da un bellissimo e all’epoca onnipresente video) divenne un successo internazionale e quello spezzone è poi approdato ovunque. Usato, citato e riciclato in centinaia di singoli: dall’universo rap di quegli anni a Pump Up the Volume, il brano da cui si originò la musica house, dal noise di Nine Inch Nails al nu metale dei Linkin Park al pop per ragazzine di Justin Bieber.
Kraftwerk – «Numbers»
La Dusseldorf degli anni Settanta e Ottanta era sicuramente meno entusiasmante dalla New York dello stesso periodo, eppure i Kraftwerk dall’anonima città tedesca riuscì a diventare fonte di ispirazione per la nascente scena hip hop della Grande Mela. Il brano Numbers tratto dal profetico concept album Computerwelt del 1981 varcò l’oceano grazie a una radio newyorkese chiamata WBLS che riuscì a rendere popolare nella cultura urbana della metropoli i suoni elettronici e sperimentali del gruppo teutonico. Le ritmiche computerizzate della band divennero alcuni dei beat preferiti dai ballerini di strada che stavano creando il fenomeno della breakdance. Afrika Bambaataa riprese questi suoni nel singolo del 1984 Planet Rock, il primo 45 giri hip hop a essere suonato interamente con strumenti elettronici. Stava nascendo l’elettronica come la conosciamo oggi, meno glaciale e germanica, ma più vicina alla vita di strada, al ballo e al groove. L’importanza dei Krafwerk non ha fatto che crescere nel corso degli anni e hanno continuato a influenzare rapper e dj. I loro suoni sono stati ripresi da artisti quali De La Soul, Dr. Dre, Jay Z, Busta Rhymes, Dj Shadow.
Ennio Morricone – «Il buono, il brutto e il cattivo»
Anche la musica italiana ha i suoi «campioni». Il brano italiano più campionato è senza dubbio il tema principale del film Il buono, il brutto, il cattivo, copiato e ripreso a più non posso in sigle e spot televisivi, ma anche largamente impiegato nel pop. Uno dei primi successi a citarlo fu Word Up dei newyorkesi Cameo nel 1986. Compare poi in diversi brani rap della Old School (Marley Marl, Slick Rick, LLCool J) e delle ondate successive (da DMX a Eminem). La popolarità di quelle sonorità ha stimolato produttori e dj a saccheggiare l’opera di Morricone. Un altro brano citatissimo è L’estasi dell’oro sempre tratto da Il buono, il brutto, il cattivo. Non solo apre da anni i concerti dei Metallica, ma è stato campionato da rapper come Jay-Z, G-Unit e Bone Thugs-N-Harmony. Del maestro romano Jay-Z ha usato anche Sporco ma distinto tratto dalla colonna sonora del film del 1983 Una cascata d’oro, mentre la musica dei titoli di testa del pasoliniano Uccellacci e uccellini si ritrova in un brano dello storico duo hip hop newyorkese EPMD. Sulla falsa riga di Morricone c’è chi ha pensato di andare a frugare tra le colonne sonore della stagione degli spaghetti western. In pochi sanno che il mega successo Crazy degli Gnarls Barkley è costruito su alcune note della soundtrack di Preparati la bara! firmata nel 1968 da Gian Franco Reverberi.
U2 – «I Still Haven’t Found What I’m Looking For»
No, né l’hip-hop né la dance hanno mai amato particolarmente campionare gli U2. E la ragione più che musicale è legale. Un campionamento tratto da uno dei più noti brani della band irlandese fu al centro di una lunga e controversa vicenda legale. Nel 1991 il collettivo art-rock californiano dei Negativland pubblicò per l’etichetta indie SST (fondata da Gregg Ginn dei Black Flag) un singolo intitolato U2 che conteneva un sample del successo di Bono e soci e la voce di un fuorionda del famoso Dj Casey Kasem che insultava la band. I Negativland non erano nuovi alle provocazioni, qualche anno prima, per dimostrare l’ingenuità dei media avevano dichiarato che un teenager aveva massacrato la famiglia ispirato da una loro canzone. Era un’ invenzione, ma nessun giornalista verificò la storia e il gruppo conquistò le prime pagine. Il singolo U2 era un’altra goliardata, ma la cosa non piacque all’allora casa discografica del quartetto, la Island, che fece causa ai Negativland e alla SST. La vicenda giudiziaria mise in ginocchio la piccola etichetta che a sua volta si rifece contro il gruppo. Il disco venne ritirato e ai Negativland, ridotti quasi in bancarotta, venne anche proibito di proporre la canzone dal vivo. Ma gli sconfitti ebbero una rivincita morale qualche tempo dopo, quando un giornalista offrì a due membri del gruppo, Mark Hosler e Don Joyce, di intervistare The Edge telefonicamente sotto mentite spoglie. I due chiesero al chitarrista dei campionamenti che gli U2 stavano usando per il loro mega-tour Zooropa e poi si rivelarono. The Edge (l’intervista è ascoltabile ancora on line) ammise che la richiesta di danni non era stata una loro scelta, ma solo un’iniziativa della casa discografica e che la filosofia degli U2 non era quella di proibire o di ostacolare i campionamenti.
Billy Squier – «The Big Beat»
Il rocker di Boston Billy Squier per il mondo del rock è stata una meteora: tre album di successo usciti nei primi anni Ottanta e poi poco altro. Non pubblica un disco dal 1998, riemerge ogni tanto in qualche revival, ma è ormai per le giovani generazione solo un carneade. Il suo miglior investimento è però la canzone The Big Beat dal suo album di esordio del 1980. Il brano non ha davvero nulla di speciale se non un intro di sola batteria di 9 secondi eseguito dal musicista della band di Squier, Bobby Chouinard. È un ritmo secco e pulito, perfetto per diventare una base musicale. E così è stato. Per centinaia di volte. Dai Run-D.M.C e Big Daddy Kane fino alla storica 99 Problems di Jay-Z, per arrivare ad Alica Keys e Dizzee Rascal. «Mi ritrovai a esser definito il re dell’hip hop – ha detto il rocker – ma ai tempi non sapevo neppure che diavolo fosse. Non mi va di passare agli annali come il ‘Maestro dei campionamenti’, ma alla fine bisogna accontentarsi». Billy Squier ha di che consolarsi. A differenza di tanti altri è stato in grado di far valere i suoi diritti sull’impiego dello spezzone musicale, raccogliendo fino al 75% delle royalties sulle canzoni che ne facevano ampio uso. La sua rendita su quell’intro di batteria è stata milionaria.
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