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I buddisti della Soka Gakkai

I buddisti della Soka Gakkai – Reuters

Giappone - Italia Con i suoi 12 milioni (70mila solo in Italia) di praticanti sparsi nel mondo, la Sōka Gakkai è l'associazione laica buddhista più estesa e varia del globo. Ma è in Giappone, dove l'associazione è nata più di 80 anni fa, che si trova il centro del suo potere economico e politico

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 25 novembre 2013

Niente monaci o templi o dalai lama, ma laici – celebri e meno – che in tutto il mondo si riuniscono in kaikan, ovvero centri d’incontro. Ma, soprattutto, una straordinaria capacità di rivolgersi a un’audience globale, che si riconosce in alcuni valori “universali”, e di adattarsi a realtà diverse da quella in cui si è sviluppata. Con i suoi 12 milioni (70mila solo in Italia) di praticanti sparsi nel mondo, la Sōka Gakkai è l’associazione laica buddhista più estesa e varia del globo. Ma è in Giappone, dove l’associazione è nata più di 80 anni fa, che si trova il centro del suo potere economico e politico.

Alle origini, la “fine della legge”

La Sōka Gakkai nasce nel 1930 ad opera di Makiguchi Tsunesaburō, un insegnante di scuola elementare che proprio in quell’anno diede inizio alla pubblicazione di un’opera a volumi intitolata Il Sistema educativo per la creazione di valore, (Sōka kyōikugaku taikei).

Il messaggio fondamentale di Makiguchi era che «l’obiettivo ultimo dell’uomo» fosse nella «creazione di valori». Tre su tutti: «il bello», «l’utile» e «il buono». Secondo alcuni studiosi, Makiguchi subì l’influenza dell’intellettuale americano liberale John Dewey, fautore del concetto di educazione come luogo della formazione non solo culturale ma anche di liberazione di tutto il potenziale umano da veicolare nel cambiamento e nella riforma.

Fu proprio in quegli anni che il padre fondatore della Sōka abbracciò il Buddhismo Nichiren, una scuola fondata da un monaco del XIII secolo (Nichiren, appunto).

L’insegnamento di Nichiren si fondava su una sorta di «riscoperta» della natura di Buddha che è innata in ogni essere umano attraverso l’invocazione del titolo di uno dei testi fondamentali del buddhismo Mahayana: il Sutra del Loto o, in giapponese, Myōhō renge kyō. È qui che, sosteneva Nichiren, si trovano gli insegnamenti originari del Buddha Shakyamuni.

È solo grazie al Sutra del Loto che si può raggiungere la salvezza in un periodo in cui il messaggio di Buddha si fa sempre più debole e la legge buddhista (il Dharma) è al suo stadio terminale (mappō). Nell’insegnamento di Nichiren, non c’è nulla di ultraterreno, nessun aldilà.

Tutto avviene “aldiqua”: il risveglio o l’illuminazione scaturiscono dalla vita del singolo praticante, dalle sue sofferenze e dalle sue passioni, attraverso l’invocazione al Sutra e il rispecchiarsi del singolo praticante nel gohonzon, il rotolo su cui è dipinta l’invocazione, il daimoku, in caratteri cinesi.

Da Nichiren a Ikeda. La globalizzazione di una religione

Gettate le basi, Nichiren e i suoi iniziarono a fare proselitismo. La loro tecnica era chiamata shakubuku, un termine che indica il «piegare» il proprio interlocutore alle proprie argomentazioni attraverso la confutazione delle sue. Una tecnica aggressiva, a cui ogni praticante era chiamato, perché solo il buddhismo di Nichiren poteva garantire la salvezza per tutti, solo questa pratica era il «vero» buddhismo. E i giapponesi erano naturalmente avvantaggiati, discendendo dalla dea Amaterasu, la dea solare che nella tradizione giapponese è la divina genitrice della stirpe imperiale e del popolo del Sol Levante.

Quello di Nichiren era un atteggiamento piuttosto rigoroso, di esclusione nei confronti delle altre scuole, e soprattutto, col senno del poi, «nazionalista». Un atteggiamento, quello dello shakubuku aggressivo dei primi tempi, a cui la Sōka odierna ha deciso di rinunciare. Oggi il proselitismo segue una strategia più sottile e discreta, fatta di «adattamenti strategici» alla cultura del Paesi in cui si insedia piuttosto che di imposizioni ai nuovi adepti.

Carlo Barone, docente di sociologia dell’Università di Trento, ne ha studiato le dinamiche. L’organizzazione buddhista, spiega lo studioso in un suo articolo del 2005, ha saputo infilarsi «in una “nicchia del mercato religioso non coperto dal monopolio della Chiesa cattolica», senza dare l’immagine di «rubare fedeli” alla Chiesa di Roma.

L’analisi di Barone ha il pregio di sottolineare alcuni fattori di successo della strategia della Sōka: la mancanza di precetti comportamentali (abbigliamento, alimentazione, consumi), il taglio dei costi monetari, di tempo e di reputazione della conversione.

La volontarietà dei contributi, la riduzione dei libretti di preghiera (rispetto ai testi originari usati in Giappone), la riduzione dell’esposizione pubblica del convertito. Ma, soprattutto, l’enfasi su valori oggi percepiti come universali: la fiducia nell’uomo, l’impegno civile, il disarmo e la pace nel mondo (come ha recentemente dimostrato il successo della recente rassegna bolognese Senzatomica), i diritti umani, la multiculturalità, la spinta ambientalista e allo sviluppo sostenibile. Non stupisce che la conversione di personaggi della musica e dello spettacolo non abbia fatto che amplificare il richiamo al buddhismo della Sōka.

Religione, Potere economico e politico

Ma torniamo in Giappone. È qui infatti che si trova un’altra chiave per comprendere il fenomeno Sōka Gakkai: ovvero il culto dei padri fondatori. Makiguchi Tsunesaburō, morto da dissidente nel 1944, all’apice del militarismo nipponico, nel carcere di Tokyo, dove l’anno prima era stato rinchiuso insieme al suo allievo prediletto Toda Jōsei, l’uomo che ha portato la Sōka ai suoi primi successi nel dopoguerra; e Ikeda Daisaku, l’allievo di Toda che in soli quattro anni portò il numero degli adepti giapponesi da poche centinaia migliaia a 3 milioni, conducendo l’organizzazione all’esplosione globale.

Se era partita come braccio laico di una scuola del Buddhismo Nichiren, a un certo punto tra il clero e i laici si consuma una scissione. Un episodio racconta meglio di qualunque altro la storia, che ha anche un secondo risvolto, ovvero raccontare il potere economico della Sōka: il caso del tempio Shō Hondō.

All’inizio degli anni Settanta la Sōka Gakkai è già un movimento globale. Ikeda si incontra regolarmente con ministri del governo giapponese e, senza parlare una parola d’inglese, con capi di Stato e diplomatici di tutto il mondo. Da Zhou Enlai al premier sovietico Kosigyn a Henry Kissinger.

La sua immagine è ormai quella di un «messaggero della pace». Da quanto si apprende dal sito internet a lui dedicato, furono proprio «la devastazione e l’orrore insensato della guerra» a provocare nel giovane Ikeda – sulla cui biografia, mancano versioni non ufficiali – un profondo desiderio di «sradicare le cause fondamentali dei conflitti umani».
Per questo suo impegno, Ikeda riceve premi e onorificenze ed estende la sua rete.

È nel 1972 che viene portato a termine un altro sogno: la costruzione dello Shō Hondō, il luogo in cui custodire a eterna memoria il gohonzon dipinto da Nichiren in persona, dimostrando così la piena unità tra laici e religiosi in nome del monaco. Un’opera da 100 milioni di dollari, costruita con le donazioni e gli sforzi di volontari della Sōka Gakkai di tutto il mondo. Pochi anni dopo nel 1979, i primi conflitti dottrinali con il clero buddhista culminano con le dimissioni di Ikeda da presidente della Sōka. Nel 1992, Ikeda riceve la scomunica. Ma l’evento più spettacolare avviene nel 1998 con la demolizione del tempio, su richiesta dei monaci.

Tra le ragioni della diatriba, sottolineano alcuni esperti, lo strapotere di Ikeda, ormai un guru di respiro mondiale, all’interno dell’organizzazione.

In un articolo apparso sul Guardian nel 1984, Polly Toynbee, nipote di quell’Arnold Toynbee che scrisse un dialogo con Ikeda sui valori delle civiltà occidentale e orientale, lo descriveva così: «Sembra un uomo che per molti anni si è visto gratificare ogni singolo capriccio, obbedire a ogni singolo ordine, un uomo protetto dalle contraddizioni o dai conflitti. Non mi spavento facilmente, ma qualcosa in lui mi ha fatto venire un brivido che mi è corso fin nel midollo».

Storia di Sayaka, una figlia della Sōka in politica

Anche davanti alle telecamere, in diretta tv, Sayaka è sicura di sé. Il suo volto pallido, su cui risaltano gli occhi neri e allungati, incorniciato da una frangia nera, ricorda a tratti un automa, incrollabile nelle sue certezze. Sa di poter «cambiare il destino» della sua nazione.

Ad appena 32 anni, la scorsa estate, Sasaki Sayaka è stata eletta nel ramo più alto del parlamento giapponese nella circoscrizione di Kanagawa, dove si trova Yokohama, la terza città del Paese. A sostenerla in campagna elettorale è stata tutta una rete informale di amici ed ex compagni di università. Tutti accomunati da una cosa sola: la Sōka Gakkai.

Associata al gruppo religioso, la ragazza ha seguito un percorso educativo che l’ha portata a laurearsi in Legge alla Sōka University di Tokyo. L’istituto è stato fondato da Ikeda Daisaku, l’85enne carismatico leader dell’associazione e oggi raccoglie oltre 8mila iscritti, il 20 per cento dei quali dichiara di non essere affiliato.

Da qui, una «culla di una nuova cultura», esce l’élite dell’apparato organizzativo della Sōka e del Kōmeitō, il terzo partito nazionale nonché principale alleato del partito di governo, il Partito Liberaldemocratico di Abe Shinzō. Quindi, in senso lato, dello Stato giapponese.

In un paese che non ha più una religione ufficiale, la Costituzione postbellica sancisce all’articolo 20, la separazione tra religione e politica. Per questo, da anni, il Kōmeitō è criticato, addirittura accusato di «incostituzionalità». «Il provvedimento della costituzione è da intendere nel senso che lo Stato non può intervenire nella sfera religiosa di ognuno», ha ricordato Sasaki durante l’intervista.

«Tutti nella Sōka Gakkai sostengono il Kōmeitō. Ed è uguale a tutte le altre forme di sostegno politico». Per la Sōka, la politica è da sempre uno degli interessi primari, in quanto la via maestra alle riforme.

A partire dagli anni 50 l’associazione inizia a sostenere candidati nelle assemblee locali e nelle elezioni per i due rami del parlamento nazionale. Il desiderio di aggregazione e di rappresentazione di quanti si trovavano allontanati dalle campagne in cerca di nuove possibilità in città negli anni del boom postbellico, fu la spinta decisiva all’azione politica della Sōka.

Poi, nel 1964, la svolta. Ikeda Daisaku, il terzo presidente della Sōka, decide di creare un’entità politica formalmente separata dall’organizzazione religiosa, ma ad essa finanziariamente e storicamente legata a doppio filo.

Un partito «del governo pulito»- questo il significato del nome Kōmeitō – che fosse libero dai condizionamenti dei blocchi ideologici venutisi a creare con la Guerra fredda, ma che nella pratica ha mantenuto una certa ambiguità: dopo anni all’opposizione con il partito socialista e la salita al potere per un brevissimo periodo a inizio anni ’90, dal ’99 appoggia il partito conservatore oggi guidato dall’attuale primo ministro Abe.

Una formazione che per questo oggi si trova a essere testa di ponte tra il governo e una delle lobby più influenti del Paese.

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