I bambini hanno paura dei fantasmi
Mostra di Pesaro Intervista a Rong Guang Gong sul suo film girato sui monti del Guizhou, poverissima zona della Cina
Mostra di Pesaro Intervista a Rong Guang Gong sul suo film girato sui monti del Guizhou, poverissima zona della Cina
«Alla fine riesco a sentirmi libero solo quando sfuggo dal mondo e mi ritiro in quella “terra selvaggia” che è la creazione di un film.» per il cinese Rong Guang Rong che ha aperto il Festival Del Nuovo Cinema di Pesaro con il suo Children Are Not Afraid of Death, Children Are Afraid Of Ghosts il discorso è tutt’altro che solo metaforico. Per realizzare questa intervista ci abbiamo messo sei giorni perché lui sta girando il suo nuovo film in una regione talmente selvaggia e isolata che per trovare la prima città dotata di un qualche accesso alla rete gli ci volevano ore.
Il film pesarese è ambientato sugli impervi monti di Guizhou, una delle tante zone rurali della Cina tagliata fuori da qualsiasi idea di progresso tecnologico e benessere economico. Doveva essere un documentario sulla vita disperata di un gruppo di bambini che si è tolto la vita in un allucinante rito collettivo, ma le lungimiranti autorità locali hanno sequestrato tutto il materiale. Diventa una ricostruzione fantastica, emotiva, di quella stessa verità. Una indagine giornalistica, un poliziesco, i cui soli documenti sono emozionali, interviste ad altri bambini, i ricordi del regista, sogni e incubi, fantasmagorie. Un calcio in pieno stomaco.
Ecco il nostro complicato carteggio virtuale
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Interviste reali, frammenti di ricordi personali reali e inventati, sogni, incubi, i giochi fantastici dei bambini, fiction e documentario… come si riesce a condurre a una unità di senso un materiale tanto vario?
Sono le emozioni a legare insieme tutto. Non avendo ricevuto alcun tipo di formazione accademica ho un approccio piuttosto atipico tanto alla scrittura quanto all’immagine, anche perché, per carattere, tendo a rifuggire le restrizioni imposte “per regola”.
Prima di iniziare a montare ho sentito il bisogno di scrivere un breve racconto con lo stesso titolo del film, una scrittura propedeutica per il montaggio che mi ha aiutato ad analizzare e mettere insieme tutti i vari pezzi; ogni volta era un’esperienza molto forte sia dal punto di vista fisico che emotivo, la paura, la rabbia, la grande tristezza che avevo sentito sia laggiù, a Guizhou , sia durante la mia infanzia mi si ripresentavano quasi con violenza. Ho cercato quindi prima di tradurle in un linguaggio visivo, girando, poi di convertirle in parola udibile, col racconto, per poi riconvertirle in immagine, montando il film. La speranza è che lo spettatore riesca a calarsi in questo percorso emozionale insieme a mee le modalità di ripresa, la voce fuoricampo (che riprende il racconto), e il montaggio cercano di suscitare nel pubblico queste emozioni, più che dargli risposte concrete.
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Molta macchina fissa, inquadrature completamente prive d’ogni movimento, addirittura fotografie statiche senza colori, buio e nero…a tratti c’è come una volontà sottrattiva che svuota, decostruisce, il linguaggio…
Prima di tutto è bene ribadire che questo è un film sulla morte, non intesa solamente nella sua accezione fisica, ma anche, forse soprattutto, metaforica, perché nel quotidiano delle nostre vite facciamo esperienza della morte in mille modi diversi…
Quando penso alla morte la vedo come una perpetua, continua quiete, immobilità…
E nella vita la quiete, l’immobilità non sempre sono cose positive. Quando sono arrivato sui monti di Guizhou, abbandonati come sono dalla civiltà, c’era un’immobilità claustrofobica, mi sentivo come se niente fosse possibile. La povertà, la siccità, l’ignoranza, la violenza… non si vedeva alcuna possibilità che queste cose potessero cambiare e le vite di quei bambini apparivano condannate ad essere prede senza scampo, in una immobilità disperata.
Ecco tutto ciò, in qualche modo, ha generato in me questa immagine dell’immobilità mortale.
D’altro canto, pero, la quiete è la condizione essenziale per potersi fermare, astrarsi un momento, e riflettere….
Quindi nel film c’è una doppia, contraddittoria, immagine della quiete, il che, in alcuni punti può annoiare o infastidire lo spettatore.
Pensa a quando, svaccati sui nostri divani a mo di cadaveri, guardiamo un notiziario, assistiamo a vere e proprie tragedie, ma senza colpo ferire, ci giriamo dall’altra parte e con tutta tranquillità finiamo la nostra bella cena., anche questa è “calma”, ma, ti chiedo, che tipo di calma è questa? Quelle immagini ci sembrano prive di densità, eteree, le svuotiamo del loro contenuto umano perché sono “solo” espressioni mediatiche, per noi non contengono alcuna emozione.
Dobbiamo fermarci un attimo, capire l’importanza dell’essere tolleranti e partecipi, è anche questo che ho cercato di dire con quell’immobilità in immagine.
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Luci metropolitane ipercromiche e sciabolate di neri, e altrove incubi e fantasmi che strisciano da bui ultramondani…una sorta di poema visivo del nero…
Come regista spesso arrivo a odiare la sola esistenza del colore nero, però ho una vera e propria mania per i colori della notte.
Il tombale colore della notte ha una sua austerità, la notte è solenne. Quando racconti una storia, gli aspetti contraddittori della natura umana sono inevitabili e la notte è il loro luogo, ti permette di nascondere le cose senza che nessuno se ne accorga, sia nel bene che nel male.
La notte è il dominio dell’assoluta libertà, ma anche del pericolo perché nel buio non puoi vedere le azioni, le mani che le compiono, chiunque può impunemente essere colpito.
D’altro canto viviamo in una società in cui non è concesso di sapere la verità e proprio per questo credo che faremmo meglio a ritirarci nella nostra notte a meditare, decelerare tutto questo gran muoversi che è il vivere, scegliere e decidere solamente in base ai ritmi naturali della nostra sensibilità. Oggi invece tutti cercano di fissare il sole, la luce, in cui ogni cosa è chiarissima, già spiegata, e in cui tutto si sceglie all’istante senza riflettere. E’ una mia idea, non funziona per tutti così, ovviamente.
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Il mondo dei bambini è fondamentale: riempie lo schermo di colori vividissimi e attraverso il gioco crea figure, come il terribile uomo coccodrillo, che parlano per via metaforica della realtà, di paure reali…
Vedo idealmente i bambini come incarnazione della felicità, e credo che niente di sporco o impuro dovrebbe impedire loro di goderne pienamente. Utilizzare colori particolarmente vivaci nella rappresentazione del loro mondo è stato come dar loro una medaglia, una piccola retribuzione di allegria, il mio augurio per una vita più felice. Sono i soli che possono ancora vivere di luce piena senza esserne confusi, perché la loro sensibilità è purissima. Attraverso i personaggi dei loro giochi raccontano il mondo. Persone reali. L’uomo coccodrillo, temutissimo dai bambini del posto, è uno dei soggetti che minacciosamente ci ha intimato di abbandonare il villaggio, che ha una gigantesca cicatrice da una parte all’altra del viso, che gli disegna in faccia una specie di mostruoso ghigno, come la bocca di un coccodrillo.
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Tra documentario, fiction, film di genere e onirismo: testimoniare il reale o fingerlo? Il cinema sta alla realtà come…
intendo approfondire ulteriormente tutta la questione delle relazioni tra Fiction, narrazione e realtà nei lavori a venire, mi interessa molto.
Nei confronti di questo deprecabile “mondo adulto” sento il bisogno di alimentare continuamente un’attitudine indagatoria, perché ciò che vedo e ascolto nel quotidiano mi riempie di dubbi e sospetti, il che mi alla lunga mi sfianca.
Ho rinunciato a litigare con gli indifferenti, ma le parti di fiction nei miei film sono piccole armi con cui posso attaccare la realtà, sono gesti, azioni. Se semplicemente ordini a un bambino di non avvicinarsi alla finestra nuova di zecca senza spiegargli le ragioni, solo perché non deve, lui sicuramente gli tirerà un sasso, giusto per vedere cosa succede…
Non credo che il film possa concretamente agire sul problema,e d’altronde il raggiungimento di una qualche“società ideale” resta una chimera. Però non abbandono certi ideali ed è per questo che con i miei film continuo a interrogare, a comunicare con la gente. Il Cinema è lontano dalla realtà ma lo sforzo che dobbiamo fare è quello di non smettere di sperare di portare la realtà più vicino ai nostri film.
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Non c’è alcun riferimento esplicito nel film, eppure la reazione di dissenso che trae lo spettatore è quasi inevitabile…
L’assenza di una denuncia politica diretta è la conseguenza naturale del mio approccio al concetto di “umanità”, l’arma migliore di cui disponiamo è la nostra sensibilità, e se cessiamo di nutrirla tutto il resto non ha senso di esistere. Dunque il film mi concentro sul suscitare le emozioni dello spettatore, tra queste anche l’eventuale fastidio, ma è un qualcosa che deve “sgorgare” in lui naturalmente, a partire dalla sua irripetibile sensibilità, dal suo autonomo pensiero
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