Hugo Ball, dal Cabaret Voltaire ai Padri della Chiesa
Hugo Ball è uno degli eroi del Novecento. Il 5 febbraio del 1916 inaugurò a Zurigo il Cabaret Voltaire, travestito come un grande, elegantissimo cazzo argentato. Il 28 luglio, lesse al pubblico il Manifesto del Dadaismo.
In quel periodo compose alcune delle più memorabili insensatezze dell’epoca, come i «sonetti schizofrenici» e altre libere associazioni di parole inesistenti. Ma non era fatto per diventare uno dei tanti papi dell’avanguardia che invecchiano fra anniversari e antologie.
Nemmeno il Dadaismo può imbrigliare a lungo uno spirito veramente inquieto e votato, più di ogni altra cosa, alla sua personale e inimitabile recherche de l’absolu.
Nei suoi quarantun’anni di vita (morì nel 1927) Ball si interessò di molte cose, dall’arte drammatica di Max Reinhardt, di cui fu un allievo, al pensiero di Bakunin e degli anarchici dell’Ottocento.
Forse il cattolicesimo assorbito in famiglia ebbe qualche parte nella profonda religiosità, decisiamente indirizzata alla mistica, che caratterizza gli ultimi anni della sua vita.
Se misurato sul metro della particolare intensità che Ball riversava nelle sue passioni, l’itinerario dal Dadaismo ai Padri della Chiesa può essere considerato meno lungo di quello che si immagina. Fatto sta che Cristianesimo bizantino (trad. di Piergiulio Taino, «Biblioteca Adelphi», pp. 316, euro 28,00) è tutto meno che uno dei tanti libri-fioretto scaturiti da una conversione che affollano gli archivi della modernità. In conseguenza di un bizzarro fenomeno psicologico, molto spesso il pensiero del convertito moderno, sia in senso politico che religioso, è gravato da una certa ottusità e da una fatale mancanza, per così dire, di documentazione.
Non è l’esattezza la virtù principale dell’uomo nuovo, nel quale l’energia del cambiamento prevale sulla conoscenza vera e propria. Naturalmente, sto trascurando ingiustamente tantissime eccezioni. Ma chi ha letto la prima parte del Regno di Carrère ha potuto toccare con mano quanto sia pernicioso il narcisismo che si acquatta in ogni esigenza di salvezza individuale, in ogni ricerca di una rinnovata pienezza della vita.
Ecco, la prima cosa che si può dire sul suo splendido libro è che Hugo Ball, dai mistici e dagli asceti a cui si è dedicato con tanta profondità, ha imparato, per prima cosa, quanta salute («il superlativo della salute è l’immortalità») sia racchiusa in un’abolizione totale dell’Io e dei suoi diritti.
Anche a scrutarlo con una lente di ingrandimento, non troveremmo in Cristianesimo bizantino il minimo sottinteso autobiografico. Il fatto è che quando una materia è stata così assimilata da diventare la sostanza più intima e tenace del pensiero e della personalità, non c’è più bisogno di giustificare in qualche modo il proprio coinvolgimento, puntellandolo con circostanze estranee alla cosa in sé.
Non a caso al suo amico Hermann Hesse lo stile di Ball ricordava quello di certe vite di santi della tradizione ebraica scritte da Martin Buber. L’analogia vale anche per il rigore delle conoscenze, che si può definire «filologico» soprattutto per l’abitudine a un rapporto di prima mano con le fonti più ardue e originarie.
Anche nel concepire l’architettura dell’opera, Ball rivelò un vero talento da artista degli abissi.
Cristianesimo bizantino è un trittico, i cui pannelli sono rispettivamente dedicati a tre campioni della mistica e dell’ascesi vissuti tra il V e il VI secolo: Giovanni Climaco, il grande solitario del Sinai che scrisse La scala del Paradiso; il misterioso e sublime teologo che alla fine del V secolo firmava le sue opere con il nome di un personaggio degli Atti degli Apostoli, l’ateniese Dionigi l’Areopagita convertito da san Paolo; Simeone lo Stilita, infine, che visse quarant’anni in cima a una colonna – un uomo ancora capace di praticare la preghiera come una «scienza esatta».
L’inclinazione «pittorica» di Ball si rivela anche nel fatto che tre storie diverse si svolgono nello stesso paesaggio: l’Asia Minore, dai centri spirituali della Siria al gran calderone sapienziale di Alessandria, passando per le rupi del Sinai pullulanti di comunità di monaci e di eremiti.
Si addice alla forma del trittico anche il fatto che sia il pannello centrale quello più ampio e in tutti i sensi impegnativo. Il cristianesimo di cui parla Ball – per non parlare dell’ortodossia cattolica – è ancora una pasta molle, un coacervo di possibilità.
La teologia mistica dell’uomo che oggi chiamiamo (con gran dispiacere di Ball) lo pseudo-Dionigi è un’impresa unica di armonizzazione all’incrocio di eredità gnostiche, neoplatoniche ed ebraiche, fondata sulle due colonne della gerarchia e del sacerdozio.
Parole, ammettiamolo pure, tutt’altro che attraenti, ammesso che siano ancora in qualche modo comprensibili al di fuori del mondo clericale. Ball sa bene che esiste questo ostacolo. «Abbiamo disimparato lo stile arcano», osserva a un certo punto, assieme alla capacità di interpretare i «segni divini per mezzo del cuore».
Di conseguenza un intero vocabolario è scivolato nell’insignificanza. Anche quando riusciamo a esercitare un minimo di empatia nei confronti di quelle vite e di quelle menti così remote, magari ammirando la sovrumana capacità di resistenza nelle privazioni degli eremiti, li confondiamo facilmente con degli «artisti del digiuno», osserva Ball, non saprei dire se alludendo al racconto di Kafka, uscito in rivista nel 1922.
E ancora di più la sfida di Ball ci apparirà ardita ai limiti dell’impossibile, artisticamente ancora prima che filosoficamente, quando si tratta di affrontare le vertigini e gli aneliti del pensiero dello pseudo-Dionigi. Nulla è più lontano dal Cristianesimo bizantino, infatti, che un intento di divulgazione e semplificazione a uso della curiosità dei contemporanei.
Sostenuta da un traliccio perfettamente congegnato di citazioni, la prosa di Ball non mira a spiegare, ma a far vedere la bellezza di una visione del Cosmo percorsa da una sola luce che dalla sua fonte ineffabile percorre tutta la gerarchia degli esseri, richiamandoli a sé lungo il cammino ascendente della purificazione, dell’illuminazione, della perfezione.
Quello che Ball descrive è come l’esplodere di una luce nella storia del pensiero. È una luce paradossale, poiché proprio con la sua abbondanza il divino rimane occultato e, come dice Dionigi, celato anche all’interno della sua manifestazione. Ed è la stessa luce che, secoli dopo, nutrirà le più alte emozioni visionarie di Dante, degli spericolati maestri del gotico, dei pittori di icone con i loro pennelli intrisi d’oro.
Se si trovano la pazienza e il ritmo necessari, il libro di Ball agisce come una specie di incantesimo, tanto più efficace quanto più si era del tutto ignoranti o solo vagamente informati dei suoi astrusi argomenti. Facciamo esperienza diretta di un modo di intendere il mondo e il destino talmente estranei alle nostre abitudini che ne ricaviamo un senso benefico di incremento delle possibilità della mente. E insieme, quel senso di libertà che proviene sempre dall’incredibile.
Già, perché sembra incredibile che qualcuno abbia scritto libri come la Scala del Paradiso o la Gerarchia celeste o che abbia passato gran parte della sua vita in cima a una colonna. Lasciando da parte la storia del cristianesimo, è un capitolo importante, quello scritto da Ball, della storia universale dell’estremismo.
Nessun’altra definizione si addice meglio a uomini capaci di immaginare una scala tra la terra e il cielo, e poi montarla senza riposo, giorno dopo giorno, con tutto il corpo e tutta la mente.
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