Sebbene non si sia lasciata catturare dal canto maligno delle sirene hitleriane, Ricarda Huch – la prima donna a essere stata chiamata a far parte della prestigiosa Accademia prussiana delle arti, dalla quale si dimise nel 1933 in aperto dissenso con la cacciata da quella istituzione di Alfred Döblin e, insieme, per marcare con forza la distanza dal montante clima di antisemitismo – decise tuttavia di non abbandonare la sua nazione, come invece faranno tantissimi scrittori, filosofi, artisti e intellettuali tedeschi, compreso (dopo molti tormenti interiori e quando per lui diventò impossibile esitare) l’«impolitico» Thomas Mann. Proprio quest’ultimo fu un grande estimatore dell’autrice del romanzo L’ultima estate (1910), l’opera più nota e fortunata di un’autrice che ha attraversato e praticato tutti i generi (un po’ alla maniera di Stefan Zweig), dalla narrativa alla poesia, dalla saggistica storica (vanno ricordati almeno La difesa di Roma e i tre volumi dedicati alla Guerra dei Trent’anni) a quella religiosa, dalla biografia (Lutero, Napoleone, Garibaldi e Bakunin, tra gli altri) all’autobiografia, dagli studi filologici al diario e alla critica letteraria (rimarchevoli il suo Gottfried Keller e le analisi intorno al romanticismo tedesco).

Un sentimento del mondo

Quando, tra il 1966 e il 1973, uscirono gli undici volumi che compongono l’opera completa, non soltanto si comprese la multiformità degli interessi e delle cifre di questa poligrafa nata a Braunschweig, in Bassa Sassonia, nel 1864 e morta nel 1947 a Schönberg im Tanaus, ma innanzitutto si mostrarono con lampante chiarezza alcune costanti e, in primo luogo, proprio il romanticismo. Che non fu, nella Huch, solo un incontrovertibile dato della storia letteraria tedesca ed europea, bensì un sentimento e una visione del mondo, una pratica stilistica, una ossessione e quasi una coazione a ripetersi, in specie nella sua produzione poetica.

Questo dato ora è possibile verificarlo grazie alla scelta antologica, approntata e ben tradotta e curata da Giuliano Lozzi, che abbraccia l’ampio lasso di tempo che va dal 1891 al 1947, vale a dire dal giovanile esordio con una raccolta di versi pubblicati – ed è un elemento significativo e anzi rivelatore – sotto lo pseudonimo di Richard Hugo (il nome è quello del cognato con il quale ebbe, come si usa dire, una travagliatissima storia d’amore; il cognome, beh, ça va sans dire) ai versi della vecchiaia, abbrunati e stemmati da un irrimediabile, definitivo senso della fine. Il titolo accolto – Fuoco d’autunno (Elliot «Poesia», pp. 154, euro 17,50) – è quello, tardo e definitivo, di un libro del 1944. Il romanticismo, si diceva. Esso, qui, nello svolgersi degli anni e nel passaggio da un secolo all’altro, rimane il motore immobile durato circa sette decenni, senza scatti in avanti, senza cortocircuiti, senza frizioni e inciampi a scalfirne, dentro quel cammino, l’eredità dell’Ottocento più profondo. Il trascorrere delle stagioni, l’amore preferibilmente infelice o come desiderio e mancanza, la contemplazione della natura, le figure del mito (da Niobe – «Una lacrima lenta scorre e cade/ Sul suo volto di pietra; il dolore / È ancora fermo lì, è la sua casa» – a Ifigenia, da Apollo e Dafne alla Medusa, dalla Parca alla Valchiria: «Odio il rosso delle tue adorate labbra / E il battito del tuo cuore, che vittorioso esulta; / Il mio scudo si nega al mio tesoro: / Io, la Valchiria, ti annuncio la morte!»); i giovani soldati caduti in battaglia, l’appressarsi della morte, proprio tutto si precipita in un mare di sorprendente fissità tenuto ben lontano da ogni contemporaneità.

Il caso Deruga

Non così, altrettanto inopinatamente, accade nella narrativa della Huch, ad esempio nel romanzo processuale Il caso Deruga (1917), dato alle stampe lo scorso anno da L’orma editore nell’ottima traduzione di Eusebio Trabucchi (pp. 208, euro 18,00), laddove nella Monaco di inizio secolo un medico italiano viene accusato di avere assassinato la ricca moglie, dalla quale si era da tempo separato senza avere divorziato, per motivi di interesse legati all’eredità. Sigismondo Enea Deruga è una figura forse ispirata a quella del primo marito della scrittrice, il dentista triestino Ermanno Cecconi, incontrato a Vienna e con il quale convolerà a nozze nel 1897 per infine divorziare nel 1906; e proprio nella città del padre della sua unica figlia, dove soggiornò per tutta la durata del matrimonio, la Huch ambientò Vicolo del Trionfo, edito in italiano dalle Edizioni della Laguna nel 1997, un «racconto di vita» di cruda asciuttezza, quasi verista, ambientato in un mondo non «imperiale» ma piuttosto di sommersa povertà e derelizione. Il protagonista, a dispetto dei tanti pregiudizi di cui viene fatto bersaglio in quanto straniero, delle apparenze e del carattere altero e scontroso, uscirà dall’aula del tribunale da trionfatore, da uomo nutritosi di alti principî di carità e di compassione. Il tema centrale del romanzo, affrontato per la prima volta in un’opera letteraria, è quello del fine vita. Ma pure, sullo sfondo, l’eventuale arbitrarietà di ogni processo, il possibile iato tra verità e verità processuale. In esergo sarebbero state assai appropriate, se la cronologia lo avesse consentito, le seguenti drammatiche considerazioni del grande giurista Salvatore Satta: «Ha il processo uno scopo? Non si dica, per carità, che lo scopo è l’attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta (…) Se uno scopo al processo si vuole assegnare questo non può essere che il giudizio». Ma appunto, aggiungeva, in queste considerazioni del 1949, la «formazione del giudizio» è un atto arbitrario e dunque «processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo».

Un romanzo epistolare

Ma la ricezione italiana di Ricarda Huch si è affidata, almeno fino a poco tempo fa, a un solo breve romanzo epistolare, il già citato L’ultima estate (1910), stampato per la prima volta nel 1930 da Sperling e Kupfer e poi, con nuove traduzioni, da Multhipla nel 1980, da Garzanti l’anno successivo (con una nota di Cesare Cases) e da Ponte alle Grazie nel 2017. Il modello è certamente Le relazioni pericolose e dunque il suo timbro è risolutamente classico, mai effusivo, l’andatura e la costruzione geometriche, il tutto accompagnato da una sorta di suspense crescente, nel mentre tutti i personaggi via via si svelano e si rivelano. L’anno è il 1906 e l’ambiente quello della tenuta di campagna del governatore di San Pietroburgo, di sua moglie, dei figli e delle figlie. L’alto funzionario zarista, dopo avere chiuso d’autorità l’università per impedire le crescenti sommosse degli studenti contro il governo, vi si rifugia per sfuggire a un eventuale temuto attentato. A fargli da segretario e al fine di proteggerlo viene assunto un giovane che, come Maldoror, porta un disordine nella famiglia, sentimentale e non solo. Al pari di un angelo sterminatore e simile al Terence Stamp di Teorema, l’anarchico Lju seduce tutti, li smaschera e li distrugge.

Appare dunque evidente la forte distanza tra il mondo chiuso e immobile, senza sviluppi e avanzamenti, della poesia, e quello acuminato e aspro della narrativa. Della conservatrice Ricarda Huch – che fu amica assai apprezzata, oltre che di Döblin durante gli anni berlinesi e poi, nel periodo di Monaco, oltre che di Mann, anche di Rilke, di Hofmannsthal e dell’anarchico Erich Mühsam – occorrerebbe ad esempio leggere il libro d’esordio del 1893 (tradotto da Gentile nel 1946) intitolato Le memorie di Ludolf Ursleu il giovane, romanzo che sembra un calco dei Buddenbrook, essendo incentrato sulla inarrestabile decadenza di una ricca famiglia borghese. Soltanto che è stato pubblicato quasi otto anni prima.