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Hrw: le terre Rohingya incendiate per requisirle

Hrw: le terre Rohingya incendiate per requisirleUn rifugiato Rohingya al confine tra Myanmar e Bangladesh – Reuters

Myanmar Continua lo sfratto della minoranza musulmana birmana e Human Rights Watch documenta intere aree date alle fiamme per mettere le mani sulle loro terre. Un'espulsione con profitto

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 30 agosto 2017

Sarebbero già 5mila i rohingya in fuga che tentano di raggiungere il Bangladesh. Gente che scappa dall’ennesima stretta militare che ha tutta l’aria di un pogrom verso la minoranza musulmana che fugge da un territorio che è appena stato fotografato dal satellite cui ha fatto seguito una denuncia di Human Rights Watch: incendi a macchia di leopardo nelle tre township (unità amministrativa birmana) di Maungdaw, Buthidaung e Rathedaung, lungo un percorso di 100 km in aree prossime alla frontiera bangladese.

Di questi 5mila però circa 4mila – secondo il magazine birmano Irrawaddy – si trovano nella terra di nessuno tra i due Paesi e le guardie di Dacca li respingono. Lo hanno già fatto con 550 persone. Ad altre lasciano che passino il confine per avere medicine ma poi devono tornare dall’altra parte, dove c’è il «loro» Paese che non li vuole.

Gli appelli dell’Onu cadono nel vuoto e intanto il governo agita lo spettro di uno «Stato islamico» nel cuore del buddista Myanmar, progetto all’origine dell’attacco del 25 agosto a trenta posti di polizia.

Il ministro dell’Interno generale Kyaw Swe (i militari gestiscono anche Difesa e Frontiere) ha detto che l’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa) vuole stabilirlo nelle township di Maungdaw e Buthidaung.

C’è dunque anche una scusa securitario-terroristica dietro alle violenze in cui sarebbero coinvolti, stando ai racconti di alcuni fuggitivi a Reuters, anche civili: «Siamo qui perché abbiamo paura per le nostre vite, ma non possiamo attraversare il confine e non sappiamo cosa fare», dice Aung Myaing e aggiunge che militari e civili buddisti saccheggiano e incendiano i loro villaggi, usando anche lanciagranate.

E quando il reporter chiede della guerriglia risponde: «Non li abbiamo visti, non abbiamo alcuna relazione con loro. Ma il Myanmar non distingue tra i terroristi e i civili. Stanno cacciando tutti i rohingya». Granate, saccheggi, incendi e un bilancio che ha già superato i 100 morti.

Le immagini diffuse da Hrw sugli incendi fanno pensare a fotogrammi più vecchi: quelli con cui la stessa organizzazione, nell’autunno scorso, riuscì a stimare a 1500 gli edifici incendiati.

Adesso, dicono all’organizzazione internazionale, non ci sono evidenze per poter dire chi ha appiccato gli incendi, se siano dolosi o provocati dal conflitto ma è certo che la scia di fuoco si estende su una lunghezza di circa 100 chilometri, lungo tutte le aree delle tre township, la zona dello Stato di Rakhine dove vive la maggioranza dei rohingya.

Sono quelle immagini a rendere più chiaro non solo un processo di espulsione che ha a che vedere col razzismo e la fobia religiosa ma l’ipotesi che, dietro alla cacciata di queste genti senza documenti, ci sia anche un piano economico per sfruttare le loro terre.

In un articolo pubblicato sul Guardian all’inizio del 2017, la sociologa Saskia Sassen ricordava che dagli anni ’90 il governo dei generali ha portato avanti nel Paese una politica di requisizione delle terre considerate mal sfruttate per affidarle a compagnie private e metterle a profitto, land grabbing per società con grandi mezzi in nome dello sviluppo.

Dal 2012 una legge ha ulteriormente favorito i grandi agglomerati che gestiscono fino a 20mila ettari aprendo anche a investitori stranieri: assalto alla foresta (ogni anno 400mila ettari) o a piccoli appezzamenti confiscati visto che la legge ne aboliva una del 1963 che difendeva i piccoli agricoltori.

Nella zona dei rohingya siamo a 1.269mila ettari con un balzo rispetto ai primi 7mila ceduti nel pogrom del 2012.

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