Hôtel Lambert e il ballo del Qatar, i sogni d’oro di un principe
L’Hôtel Lambert, diciamolo subito, non è un albergo: la parola hôtel, in francese, indica anche un palazzo e spesso si completa in hôtel particulier. Lambert è considerata una delle più belle dimore del Seicento in Francia, nello stile classico fra Luigi XIII e Luigi XIV. L’architettura si deve a uno dei più dotati costruttori di ogni epoca, Louis Le Vau.
La prima volta ci entrai come turista in una delle visite guidate che la municipalità organizzava allora. Vi risiedeva il Barone Alexis de Redé, un personaggio che ho poi conosciuto bene. Redé viveva ogni tanto con un uomo più noto di lui e immensamente più ricco, Arturo López Willshaw, che aveva una lussuosissima dimora a Neuilly: abitava a volte con la moglie, a volte con Redé, e lo strano menage à trois ogni tanto si imbarcava per lunghi periodi sul famoso yacht La Gaviota. L’Hôtel Lambert apparteneva in realtà al principe Czartoryski che lo vendette nel 1975 al Barone Guy de Rothschild e alla moglie Marie-Hélène. Redé rimase inquilino a vita e partecipante a un altro menage à trois ma questa volta casto e mondano (rimase nel suo grandioso appartamento al primo piano fino alla morte avvenuta nel 2004).
In quell’epoca andai un paio di volte a colazione dal famoso Alexis: più che di pranzo si trattava di una prima teatrale, diluita nei migliori vini del mondo che si concludevano con lo Château d’Yquem, accolto con un minuto di silenzio. Redé e Guy de Rothschild idearono alcune delle feste più famose di Parigi, che si tennero sia nell’Hôtel Lambert che nel Castello di Ferrières (le bal Oriental, 1969, le bal Proust, 1971, ad esempio). L’origine di quei gran balli, ancora tocchi di surrealismo, risale all’epoca di Marie-Laure de Noailles e di Etienne de Beaumont, che sapevano mescolare charme, fortuna e disinvoltura sociale e sessuale – in una parola la letteratura, quando Parigi era ancora la capitale del mondo.
Che accade oggi? Alla morte di Guy de Rothschild, nel 2007, ebbi l’occasione di visitare per l’ultima volta il Palazzo, ancora colmo di oggetti inaspettati che gli erano appartenuti, fra i quali per caso identificai un piccolo ritratto in pietre dure a rilievo di Carlo III di Borbone quando era re di Napoli. Sapevo che cos’era quell’oggetto, ben descritto nell’autobiografia di Francesco Ghinghi, un lapicida fiorentino che aveva seguito Don Carlo da Firenze a Napoli quando divenne sovrano dell’intero meridione italiano nel 1734. Era un lavoro squisito, passato fino a quel dì inosservato.
Ma nulla di tutto ciò restò nella dimora, quando poco dopo venne venduta alla famiglia del principe Hamad bin Abdullah Al Thani del Qatar, che ha fama di essere non solo ricco fra i ricchi ma anche uomo colto. Ci si chiederà perché Sua Altezza abbia ora voluto alienare il grandioso contenuto della sua residenza. Si tratta della più grande vendita di arti decorative francesi spiegata e fotografata in sei volumi del peso complessivo di quasi dieci chili, che si dilungano su mille e quattrocento lotti. Il risultato finale dei quattro giorni di asta (Sotheby’s) ammonta a circa settantasette milioni di euro e a quanto pare, dato che si tratta di opere di notevole qualità, su alcune di esse lo Stato francese ha posto la prelazione.
L’ideatore di questa grandiosa operazione è uno storico dell’arte italiano e un amico, Mario Tavella, che da una trentina d’anni è responsabile di manifestazioni di questo genere fra Parigi e Londra, e attualmente Presidente di Sotheby’s France e Chairman di Sotheby’s Europe. I volumi del catalogo includono una guida per districarsi in questo tesoro: il principe è stato negli anni egregiamente consigliato e quando le varie schede svelano le provenienze dei non pochi capolavori si ha una lista superlativa dei grandi conoscitori, collezionisti e antiquari di oggi e di ieri. Vediamo qualche esempio. I quadri sono relativamente pochi ma c’è un ritratto fuori dal comune di Jan Sanders van Hemessen: si tratta di un misterioso uomo in un paesaggio invernale, lo sguardo inquisitivo e un cartellino nella destra, in cui lo si dice di anni trentaquattro, col motto Fortune le veult (Fortuna vuole). Il dipinto appartenne a Guglielmo d’Orange, il futuro Guglielmo II dei Paesi Bassi, e in seguito a vari conti di Warwick. Forse preferirei un dipinto più privato, l’effige di Luigi XIII, di Frans Pourbus il giovane, databile attorno al 1620: è un’opera intima che mostra una persona quasi sorpresa di essere chi è. Il pittore presta attenzione a ogni dettaglio del costume senza trascurare la psicologia e lo sguardo elusivo, quasi inquieto del re. Si includono anche un bizzarro quadro di Watteau, ben documentato sin dal Settecento, e altri dipinti francesi di Nattier, di Fragonard, di Boucher.
Ma ciò che più conta in questa raccolta sono le arti decorative, con esempi eccelsi di quei particolari aspetti della creatività francese. Diversi vasi in porcellana cinese del Sei e del Settecento, montati in bronzo dorato a Parigi, devono essere stati particolarmente amati. La prima coppia, una delle più belle ai miei occhi ma non fra le più costose, in porcellana blu Kangxi, con magnifiche montature in bronzo dorato coi marchi col C coronato (1745-’49), appartenne a una delle grandi collezioniste francesi del primo Novecento, Madame de Béhague (il Louvre possiede diversi oggetti di varie epoche e sempre di eccelsa qualità a lei appartenuti). Nella presente raccolta esistono altri vasi dello stesso genere ma l’esemplare più apprezzato (anche da chi scrive) è quello celadon, di epoca Ming, con una superba montatura attribuita all’orafo Jean-Claude Duplessis, che ha superato giustamente il milione e mezzo di euro: è alto ben settantasei centimetri e di superba classe, appartenuto nei secoli a più di un collezionista famoso.
Il pater della grande mobilia francese, Boulle, è ben rappresentato. Forse i suoi due piedistalli, in questa vendita sono le opere più importanti dal punto di vista storico dell’insieme. Essi risultano eseguiti da André-Charles Boulle nel 1684 per il figlio di Luigi XIV, il Gran Delfino, e destinati al Gabinetto di specchi del suo appartamento a Versailles (il Cabinet des Glaces de Monseigneur). Vennero ammirati dal giudizioso Nikodemus Tessin, l’architetto svedese che seppe commentare con ingegno i grandi interni delle corti europee (inclusi quelli della Roma papale barocca). Tessin, provetto cortigiano, arriva, nel suo entusiasmo per il Cabinet dell’erede al trono, a dire «tout y est parfaitement ordonné et executé et l’on attribue tout au génie de Monseigneur», esagerando i veri meriti del regio committente. Basti guardare un particolare di uno dei mascheroni di satiri coronato di edera ed enfio di vino per capire la strepitosa qualità del lavoro che qui risalta su un fondo di tartaruga, peltro ed ebano.
Potrei andare avanti così fino a diventare un pittore di ritratti di mobili, descrivendo, ossessivo, poltrone che sono quasi troni reali, candelabri di cristallo di rocca e pietre semipreziose, tappeti una volta nella Grande Galerie del Louvre disegnati da Charles Le Brun (il pittore francese del Re Sole che imparò il mestiere a Roma), microscopi che sembrano soprammobili di uno scienziato reale impazzito, cicogne in porcellana bianca montate in oro, zuppiere appartenute alla Grande Caterina e al suo favorito, il conte Orloff, mobili di Chippendale più lussuosi di quelli delle collezioni reali inglesi…
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