Internazionale

Hotel Baiyin

Hotel Baiyin – Reuters

La traduzione Racconto del musicista Zhang Weiwei. Completato nel marzo 2012, Bayin Fandian introduce l’omonimo (ottimo) album scritto a quattro mani con Guo Long. Baiyin, uno sperduto centro minerario nella regione del Gansu è la città d'origine dei due musicisti e costituisce il motivo ispiratore del racconto e dell’intero album

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 25 novembre 2013

Ai tempi delle medie, durante le vacanze, un mio compagno di scuola si recò in visita nella città natale della sua famiglia, nel Nord Est della Cina. Un giorno, sfortunatamente, fece un brutto incontro con dei teppisti.
Gli bloccarono il passo e chiesero: «Di dove sei?»
Lui rispose: «Di Baiyin.»
Quelli sogghignarono: «Ci prendi per il culo? Te lo chiedo ancora una volta: da dove vieni?»
Il mio compagno ripeté: «Fratello, sono davvero di Baiyin»
Allora lo colpirono con un pugno: «Sei di Baiyin? Sei di Baiyin o anche di Huangjin?».

Il mio compagno di classe era davvero di Baiyin, anch’io vengo da lì. Baiyin è una piccola città industriale. È nel Nord Ovest della Cina, nel bel mezzo del deserto del Gobi. La definizione più appropriata per descrivere questa città l’ha data un’amica straniera, che nutriva il desiderio ardente di percorrere le leggendarie terre dell’Ovest. Una volta, qualche anno fa, sedevamo su un bus diretto a Baiyin e lei, guardando dal finestrino lo spazio sconfinato del Gobi, si immerse nel silenzio. Dopo un bel po’ si girò verso di me chiedendomi: «Ma vivi sulla luna?»
In questo angolo di terra, a 103° di longitudine Est e 35° di latitudine Nord, si trova la solitaria Baiyin.

Più di cinquant’anni fa, proprio su questo pezzo di Gobi, fu scoperta un’enorme miniera. Da allora, da ogni parte della Cina, molte persone arrivarono proprio lì: montarono una grande varietà di enormi macchinari e iniziarono a scavare ininterrottamente sottoterra. Scavarono nel desolato Gobi fino a illuminarlo a giorno e creare un incessante viavai di gente .
In quegli anni, la figura dell’operaio che si riversa nelle lande desolate, animato dall’ideale dell’edificazione dell’immenso Nord Ovest della patria, era di gran moda. A Baiyin, quelle persone misero radici e germogliarono. E noi eravamo i loro germogli.

L’hotel Baiyin inizialmente era un ostello pubblico, che dava ristoro a pionieri di ogni specie. All’inizio degli anni Novanta era passato in mano a privati e dopo i lavori di ristrutturazione divenne subito il migliore albergo della città. Il nostro legame con questo luogo nacque al primo piano, dove allora si trovava la sala da ballo. In un’epoca in cui non c’erano ancora molti posti per divertirsi, la sala da ballo con la sua insegna luminosa al neon aprì una breccia. Si riempì di giovani, come fosse l’entrata che portava dritta nel nuovo secolo. Chi non era in grado di muovere neppure due passi sarebbe presto diventato una persona sola.

Ogni sera, la gioventù delle fabbriche e delle miniere si levava le divise e si vestiva a festa per presentarsi puntuale all’hotel Baiyin. La pista da ballo, nel bel mezzo della sala, era come un fiume che divideva le persone su due sponde. All’inizio delle danze i ragazzi si riversavano in branco sulla sponda opposta, con una mano dietro alla schiena e una protesa verso la ragazza del cuore per dare un tono appropriato alla frase: «Ragazza, non farmi perdere la faccia!»
Per fare questo passo in realtà serviva una buona dose di coraggio. Le ragazze cresciute nel Gobi non danno molto peso alle smancerie e tutte queste mani protese dovevano essere ben pronte a sbattere contro un rifiuto di ghiaccio. Per questo, molti uomini restavano esitanti ai margini della pista tutta la notte e alla fine delle danze, per una questione di convinto amor proprio, non erano ancora riusciti a farsi avanti.

Ogni sera, gli unici che pur essendo sempre presenti non si immischiavano mai in questi affari terreni eravamo noi, i musicisti che suonavano sul palco. Il nostro compito era quello di suonare un pezzo veloce e vivace, se le persone avevano bisogno delle luci accese per guardare in faccia il proprio partner, o uno lento e toccante, quando era meglio che non ci fossero le luci per evitare che gli altri distinguessero le coppie in pista.

L’anima del nostro gruppo era la tastiera. Veniva dal Giappone ed era uno di quei leggendari apparecchi che aveva la funzione “base automatica”: bastava toccare un tasto e tirava fuori chitarra, basso e batteria. Suonare così era molto semplice: il ritmo automatico dato dalla tastiera elettronica era la base su cui ognuno di noi attaccava il proprio strumento eseguendo a turno la linea melodica della canzone, un gioco da ragazzi.
Mentre suonava uno, gli altri stavano sul palco ad aspettare il proprio turno. A nessuno poteva venire in mente quanto fosse stupido esibirsi in questo modo, quando suonavamo eravamo tutti molto convinti e facevamo ognuno la propria parte come in uno stato di trance.

Più un luogo è desolato, meglio la musica viene accolta; questa è una verità che ha guadagnato il consenso unanime di tutti gli abitanti del deserto dei Gobi, di questa terra. Per questo motivo, a prescindere da quanto l’atteggiamento delle ragazze fosse risolutamente freddo, quando noi musicisti salivamo sul palco eravamo comunque accolti con affetto. I più calorosi sotto al palco si rivolgevano a noi con maggior fervore, perché in certi frangenti potevamo tornargli utili. Ad esempio prima di attaccare con un pezzo li aiutavamo dicendo al pubblico: «Cara, questa canzone è per te. Lui ti manda a dire che ieri sera siete andati a vedere un film, ma il film non era bello come te, tu sei fantastica. Più di un film.»

In una sala da ballo ad alta concentrazione di ormoni, praticamente tutte le sere potevano scoppiare risse di diversa entità. I poliziotti di zona capirono subito quale inesauribile fonte di noie potesse rappresentare questo posto, così non ci misero molto a piazzare un gabbiotto fisso all’ingresso dell’hotel, dove tutti i giorni mandavano un agente a tutelare l’ordine e a contenere le crisi ormonali. Comunque, anche con questo deterrente, gli scontri dovuti alle esplosioni ormonali non si arrestarono mai del tutto.

Normalmente, i ragazzi cresciuti nel Deserto del Gobi prima di fare a botte non hanno bisogno di scambiarsi troppe opinioni. Dopo avere reciprocamente scagliato i più semplici insulti, le due parti non perdono tempo e vengono subito alle mani. Ogni volta, quando scoppiava una rissa, lo staff che lavorava nella sala accendeva tutte le luci e aspettava l’arrivo degli agenti di polizia. Tra la gioventù, gli agenti del gabbiotto erano conosciuti come “quelli del governo”. Le persone che le buscavano durante gli scontri non avrebbero mai potuto vendere il proprio avversario, piuttosto dicevano di essere andati contro il muro inavvertitamente.

Era come quando nel Gobi scoppiava una tempesta di sabbia: le risse erano fiere ma brevi. Dopo una breve pausa tornavano di nuovo tutti in pista a ballare. Anche noi avevamo sviluppato la capacità di rimanere imperturbabili in caso di disordini: qualsiasi cosa accadesse sotto al palco, noi non potevamo interrompere il pezzo in esecuzione.
Dopo alcuni anni ho visto il film Titanic, c’era un punto in cui il gruppo musicale di bordo continuava a suonare anche quando la nave iniziava ad affondare. In quell’occasione, di fronte a una tale dimostrazione di autocontrollo nel nostro nobile lavoro, mi sono commosso versando lacrime calde!

Negli anni Novanta, da buon apprendista in una band di accompagnamento in una sala da ballo, me ne stavo sul palco con aria intontita ad aspettare il mio turno. Appese al soffitto, delle lampade colorate in vecchio stile liberavano luci che roteavano nella sala e illuminavano tutte le persone a intermittenza. Il tema instancabile della melodia era ancora in esecuzione, ma a poco a poco mi capitava di alienarmi dalla musica. Il tempo rallentava in modo incomparabile, era un po’ come se nessuno di noi si rendesse conto che tutti, assieme all’Hotel Baiyin, eravamo esposti all’erosione in questo pezzo di Gobi.

Una volta, nel bel mezzo delle danze, improvvisamente andò via la luce. La nostra tastiera rimase muta sul suo scaffale come un qualunque pezzo di ferro e gli animi cominciarono a surriscaldarsi. Il nostro leader fu costretto a tirare fuori una chitarra di legno mezza rotta dal backstage e iniziò a improvvisare. Da buon chitarrista di strada, finalmente si sbarazzò di quel gingillo giapponese che neanche lui era realmente in grado di padroneggiare. Alla luce di qualche candela intonò tutto il repertorio di canzoni d’amore strappalacrime della Taiwan e della Hong Kong anni Novanta.

Contro ogni aspettativa, gli ormoni si placarono e gli spiriti bollenti si calmarono; tutti cominciarono a cantare una canzone dopo l’altra di seguito al nostro leader. In quella triste notte in cui il Gobi rimase senza elettricità, nell’hotel Baiyin ci fu un gorgoglio sotterraneo, qualcosa di difficile da spiegare toccò gli animi di tutti i presenti. Quelle canzoni tristi riempirono l’aria nella notte, tirando fuori frustrazione e insicurezze dai cuori di chi quella sera avrebbe dovuto ancora attraversare il Gobi per attaccare il turno di notte.
Le danze si erano chiuse ma nessuno intendeva andarsene via, si sedettero tutti sul bordo della strada davanti all’ingresso dell’hotel Baiyin per bere, suonare e continuare a cantare. Proprio quella sera la ciminiera della fonderia espelleva a intervalli regolari i gas di scarico accumulati. Il fumo denso giunto da lontano era come una fitta nebbia che ci avvolgeva seduti per strada. Eravamo tutti un po’ ubriachi e piano piano, guardandoci intorno, ogni cosa si fece sempre più indistinta.

C’era una persona che aveva bevuto troppo e che, circondata dal fumo denso, faceva avanti e indietro con fare agitato. Di fianco, seduto sulla strada, un giovane che raccontava tutta la storia dei dischi volanti a un gruppo di mocciosi. Quel giovane era Guo Long.
In Occidente, alcune figure illustri hanno scritto che “non importa come la vita viene spesa, perché la vita è comunque rimpianto”. Ma nel film rivoluzionario Il dirupo rosso (红岩 Hong yan), la storia di Testolina di rapa rivela che “non importa come la vita viene spesa, la vita è sempre felicità” (1).
Diciotto anni fa, all’hotel Baiyin, ai bordi del Deserto del Gobi, due ragazzi hanno dato il via alla loro carriera musicale.
La prima volta che mi sono incontrato con Guo Long era l’autunno del 1989. Stavo per iniziare le scuole medie, così da casa presi venticinque centesimi per andarmi a comprare un set di squadre alla libreria Xinhua. Mentre attraversavo un boschetto di olivelli di Boemia spuntarono fuori all’improvviso alcune persone con indosso dei gilet neri che senza alcuna pietà mi portarono via i miei venticinque centesimi. Guo Long era uno di loro.

La scuola iniziò e scoprii che anche quei ragazzini erano nella mia stessa scuola. Dopo un semestre di puro terrore, io e Guo Long diventammo amici.
Eravamo tutti e due nati nel 1976. Era l’anno in cui morì –nel mese di gennaio- l’onorabile premier Zhou Enlai 周恩来. Dopo un lutto che unì la nazione intera, la stessa estate nacque Guo Long, che mi precedette di un po’. Subito dopo sarebbe morto il comandante in capo Zhu De 朱德, ci sarebbe stato il devastante terremoto di Tangshan e sarebbe morto il presidente Mao 毛泽东. I canti funebri di commemorazione si succedevano uno dopo l’altro e nubi fosche avvolsero la divina patria. Io, invece, nascevo. Questo breve scarto di sei mesi avrebbe fatto sì che successivamente, in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo, la mia espressione fosse sempre un po’ più amareggiata di quella di Guo Long.

Vivevamo in due corti staccate, destinate alle famiglie che lavoravano in fabbrica. Tutti e due eravamo figli cadetti. Il padre di Guo Long era ingegnere, il mio un maestro di musica. Da piccoli, mentre lui si metteva sul letto a fantasticare con il suo mondo di fantascienza, io poco distante contavo le note di un pentagramma.

Durante il giorno, tutti gli adulti erano in fabbrica e tutta Baiyin era così tranquilla da sembrare una città fantasma. A ore regolari l’altoparlante della fabbrica scandiva le chiamate e il suono giungeva da lontano fino alle case. Quel suono per noi era come un richiamo religioso. Per noi la fabbrica era davvero il centro del mondo. Nel dedalo delle piccole e grandi officine, macchinari enormi rantolavano gettando a ritmo regolare gas fitto, mentre per strada chi finiva il turno giornaliero incrociava il passaggio di chi attaccava con il turno di notte. A Baiyin ogni cosa si ripeteva quietamente, come se potesse durare in eterno.
Le note sul pentagramma e gli ufo della fantascienza non facevano parte di quel mondo. Una volta camminammo fino al deserto per guardare di fuori. Su quella sconfinata landa selvaggia il vento soffiava sull’erba selvatica e alcune lucertole schizzavano via veloci. Su quella terra non c’era niente.

Dopo esserci conosciuti, Io e Guo Long iniziammo a fare comunella e ben presto divenimmo degli studenti problematici. Facevamo spesso sega insieme e passavamo interi pomeriggi nel padiglione esterno del cortile della sua famiglia. Lì imparammo a fumare e diventammo solennemente fratelli di sangue. Scherzavamo e ridevamo tutto il tempo e aspettavamo che finivano le lezioni per riunirci alla classe dei nostri compagni e tornare a casa.

In quel padiglione conoscemmo anche una persona che per tre anni aveva studiato a fondo la chitarra mentre era in prigione; era proprio il leader del gruppo dell’hotel Baiyin, quello che suonava la tastiera elettronica. In passato era stato una figura leggendaria della città, che portava pantaloni militari con sopra una fascia rossa annodata e passava con la sua bicicletta strillando per le strade e i vicoli. All’inizio degli anni Ottanta, in seguito al risaputo giro di vite, fu spedito in galera dal governo per alcuni anni. In prigione imparò a suonare a chitarra e iniziò a studiare duramente i movimenti della mano sulla tastiera, intraprendendo la carriera musicale.
Conosceva molte canzoni famose tra i detenuti. I testi erano lunghi, il cantato veniva da lontano ed era molto toccante. Lui diceva che si trattava di vecchi canti del Nord-Ovest, che venivano tramandati da molti anni. Nelle notti solitarie in prigione, solo dopo aver cantato queste canzoni si poteva dormire. Innumerevoli melodie cantate in coro da gole corrose da fumo e alcool si liberavano nell’aria da dietro le sbarre per fluttuare nei cortili deserti. Era uno scenario che cambiò del tutto la mia attitudine verso la musica, che sin da piccolo mi era stata imposta da mio padre con una bacchetta di bambù.

Da allora la musica fu il nostro amore più incondizionato. Adoravamo il nostro leader come fosse un maestro, durante il giorno gli stavamo sempre attaccati al culo, servendogli il tè e offrendogli le sigarette. Fu così che lo seguimmo anche quando entrò nell’hotel Baiyin.
Nel momento in cui imbracciammo per la prima volta una chitarra nel padiglione esterno del cortile, una nuova era stava irrompendo anche nella nostra cittadina. Fu un istante, come finire in un trita carta: in un batter di ciglia il piano del socialismo nel Deserto del Gobi fu screditato. Parrucchieri e negozi di dischi spuntarono come funghi, in ogni strada ne apriva uno. La musica proveniente dal mondo di fuori avvolse lentamente tutta la città, sommergendo il richiamo che usciva dagli altoparlanti delle fabbriche e buttando giù dal letto con il suo rumore il sogno collettivista che aveva accompagnato per decenni il sonno della piccola Baiyin.

Il vento del Gobi spinse i granelli di sabbia contro le porte e le finestre di tutte le case; i pionieri, i nostri padri, non riuscendo a venire a capo di questi cambiamenti, persero il sonno notturno. Noi invece eravamo sulla strada, fuori dalle finestre cantavamo canzoni fresche fresche, lasciando i binari che ci avevano assegnato per andare via con le nostre gambe.
L’hotel Baiyin si ergeva proprio sulla crepa provocata dall’avvicendamento e noi roteavamo nei fasci di luce intermittenti. Le nostre famiglie pensavano che stessimo solo perdendo tempo, non immaginavano che in realtà ci stavamo allontanando sempre di più da lì e che alla fine saremmo usciti dalla loro visuale. In quella nostalgica notte senza luce sul Gobi, eravamo seduti tutti sulla strada davanti all’ingresso dell’hotel Baiyin, a suonare la chitarra, a bere alcool e a cantare canzoni. La fitta nebbia ci avvolgeva tutta come fosse l’ultima boccata di fumo denso esalata da un luogo così lontano da appartenere a un’altra era. Eravamo tutti un po’ ubriachi e piano piano, guardandoci intorno, ogni cosa si faceva sempre più indistinta.

C’era un ubriaco, che ripeteva a tutti di volere andare via e lasciare per sempre Baiyin. Gli altri lo salutavano freddamente, lasciandolo a quei commiati così sofferti, poiché ogni volta che si ubriacava ripeteva sempre quel gioco fatto di addii solenni. Tutti ormai si erano abituati e sapevano che al risveglio del giorno dopo lui ci sarebbe stato ancora, perché dove vuoi che sarebbe andato.
Quella persona ero io. È come quando l’inverno di due anni fa andavo dicendo a chiunque che dopo un mese avrei pubblicato questo album; è nella mia natura, per cui è davvero difficile da cambiare. Ma alla fine l’album è stato pubblicato e ugualmente, alla fine, ce ne andammo anche da Baiyin.

Alla fine degli anni Novanta, Pechino era tornata a essere un mondo dorato dove convergevano tantissime persone da ogni luogo. Ci arrivavano in bicicletta o sui bus sempre in piena attività. Arrivavano dritti in quella città antica, così occupata da essere sempre illuminata a giorno e sempre paralizzata dal traffico.
In quegli anni, giovani riempiti da ogni tipo di ideale irrompevano nella capitale per metterci radici e germogliare. Tra loro c’eravamo anche noi.

Nel 2009, io e Guo Long vivevamo nella zona del ponte di Dongzhi men 东直门, in due diversi complessi residenziali. Dopo dieci anni di vita a Pechino, finalmente stavamo iniziando a mettere mano a questo album. Normalmente, oltre a fare le prove, Guo Long da una parte del ponte suonava la fisarmonica per i suoi quattro gatti, mentre io, dall’altra parte del ponte imbracciavo la chitarra e scrivevo le canzoni.

Prima ho registrato le melodie già pronte, poi le ho riascoltate a ripetizione una dopo l’altra e sono entrato in quelle melodie mai easauste, aspettando che le parole uscissero fuori da sole. Piano piano non ho più dato peso alle melodie, il tempo si stava incredibilmente diradando. Mi sembrava che se non avessi fatto un po’ di attenzione sarei potuto scomparire da questa città assieme alla mia stanza.
Mi è tornato in mente una scena di quando ero piccolo. Allora, il martedì pomeriggio non facevamo lezione a scuola; i miei venivano a casa per la pausa pranzo e dopo avermi chiuso a chiave in camera tornavano al lavoro. Per tutto il pomeriggio, in camera, non si sentiva volare un filo d’aria, vedevo la polvere galleggiare avanti e indietro attraverso i raggi del sole e l’eco dell’altoparlante della fabbrica da lontano lambiva la stanza. Restavo così in camera, seduto, senza pensare a niente e senza fare niente. Due donne sedevano all’ombra fuori dalla finestra, vendevano verdure e aspettavano la fine del turno nella fabbrica. Una delle due diceva all’altra: «Quest’anno le patate sono davvero farinose, se ci metti un po’ di zucchero sembrano mele.»
Già, le patate quell’anno erano davvero farinose. Proprio come noi in quegli anni, che, seduti sulle trame che il destino ci aveva preparato, guardavamo il sipario aprirsi lentamente. Dal treno che oltrepassava il deserto sul Deserto del Gobi a quando abbiamo percorso strade di terre lontane con gli strumenti in spalla, quanto abbiamo sperato di avere un trascorso caldo e pieno, ma abbiamo solo questa storia da raccontare.

Quando quei pionieri che erano i nostri genitori avevano raggiunto Baiyin, seppellirono la loro gioventù sotto il Gobi. La cittadina di Baiyin ha svuotato se stessa fino a esaurire la sua missione. Alla fine rimane solo un monumento alla memoria diroccato, nel centro della città. Oggi, anche quei ragazzi vestiti a festa dell’hotel Baiyin sono stati cancellati dal vento che soffia sul Gobi. Passano silenziosi sotto al monumento alla memoria. C’è una stele da cui si ergono solennemente due giovani levando un grande minerale.

Ripensando a quel pezzo desolato di Gobi, ho scritto:

Verso sinistra e verso destra, aquiloni e uccelli in volo
In piedi su terra selvaggia a guardare il cielo imbrunire
Mi lasci supporre, supporre che possa esserci una ricompensa
una ricompensa che inverta il corso delle lancette sul mio orologio.

Ripensando al fumo denso nella ciminiera della fonderia, ho scritto:

Cupa notte e chiaro giorno, la nebbia densa avvolge di già
l’isola solitaria di nome Hotel Baiyin
Proprio ora ci sono, laggiù corro veloce
corro veloce su quel pezzo di blu sconosciuto e irraggiungibile

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