Poco più di tre anni fa, all’alba del 2019, se ne andava Nicholas Horsfall, grande studioso di Virgilio e di Roma antica, lasciandoci, oltre a molti importanti volumi, una quantità straordinaria di altri lavori preziosi, una parte dei quali Ailsa decise, già nei mesi successivi, di riunire in questa bella raccolta: Fifty Years at the Sibyl’s Heels (Oxford University Press, pp. 544, $ 110,00). La mia collaborazione al volume fu purtroppo stroncata da un imprevisto, proprio mentre cominciavo a riflettere sul lunghissimo elenco (più di trecento titoli, esclusi i libri) all’interno del quale ero invitata a suggerire la selezione più appropriata. Ho quindi potuto vedere e apprezzare il libro solo quando era ormai definitivamente confezionato: una silloge ampia di scritti on Vergil and Rome, scelti con cura e intelligenza.
Il titolo allude a dieci lustri di infaticabile attività (le prime pubblicazioni di Horsfall risalgono alla fine degli anni sessanta), ed è lo stesso che egli aveva coniato per l’appendice, scritta in chiave quasi autobiografica, del monumentale commento al sesto libro dell’Eneide (2013), inserito perfettamente nella serie dei suoi commenti ad altri libri del poema: il settimo (2000), l’undicesimo (2003), il terzo (2006), il secondo (2008). Stava di nuovo lavorando a un altro commento, quando le nostre discussioni sulla trasmissione del testo virgiliano (argomento sul quale avevamo anche un progetto comune), l’esegesi virgiliana antica, le librerie (e gelaterie) parigine o londinesi, furono interrotte troppo bruscamente.
Sono 42 i lavori inclusi in questo volume di opera selecta, che inizia con «Numanus Remulus: ethnography and propaganda in Aen. 9.598ff.» (sul ritratto virgiliano dell’Italia primitiva e la convenzionale presentazione degli orientali come effeminati dediti ai piaceri) e si conclude con «The Poetics of Toponymy» (sulle denominazioni dei luoghi in Virgilio e Orazio). Si tratta di articoli apparsi in note riviste internazionali tra il 1971 e il 2015, alcuni presentati, per la prima volta, nell’impeccabile traduzione inglese di Ailsa Crofts. La scelta è caduta su veri e propri ‘classici’, che hanno profondamente influenzato gli studi successivi, cambiando spesso il nostro modo di vedere e di studiare Virgilio (e non soltanto Virgilio).
Quando lo incontrai per la prima volta, a un seminario virgiliano organizzato da Mario Geymonat, era la lontana primavera del 1988, ma circa metà di questo libro era già stato scritto e Nicholas Horsfall, allora poco più che quarantenne, formatosi a Cambridge e Oxford sotto la guida di Kenney, Brink, Fraenkel, Nisbet e Margareth Hubbard («my beloved teacher and reader») e dopo aver insegnato a Londra, si era trasferito in Italia. Autore già di numerose pubblicazioni (tra le quali alcune voci importantissime dell’Enciclopedia Virgiliana), era molto famoso (‘famigerato’ per alcuni…) anche come recensore, non solo infaticabile – aveva già scritto quasi una sessantina di recensioni e sarebbe arrivato a scriverne complessivamente molto più del doppio –, ma soprattutto severo e perciò temutissimo. Di questo aveva egli stesso chiara consapevolezza e annotava, con il suo sense of humour molto inglese: «scrivo con esperienza lunga di recensioni virgiliane, in varie riviste, purtroppo di tono non raramente negativo. Da cacciatore divento preda…». Sorriderebbe ancora, oggi, vedendo che il cacciatore dovrei essere io.
La mia relazione a quel seminario fu poi stampata in una rivista specialistica, esattamente nello stesso volume che conteneva un suo lavoro, «I pantaloni di Cloreo» (il sacerdote troiano il cui abbigliamento esotico causa la morte di Camilla distraendola): ora lo ritroviamo in questa raccolta postuma insieme a «Barbara tegmina crurum», a esso strettamente legato (sulla perifrasi usata da Virgilio per indicare quei pantaloni), «The Aeneas-legend and the Aeneid», «Aeneas the colonist», «Camilla, or the limits of invention». Sono alcuni tra i lavori più rappresentativi di quel fertilissimo periodo, che oggi non hanno smesso di incuriosirci e di insegnarci molto, non solo sulle tecniche e i metodi di composizione dell’Eneide come opera di poesia dotta («Le Muse di Virgilio abitavano… non sulle pendici del Parnaso ma negli armadi e sugli scaffali di una buona biblioteca» scriveva), ma anche sul modo di leggerla, che Horsfall amava descrivere con l’espressione metaforica ‘pelare il carciofo’, per indicare bene la fatica, ora gratificante ora quasi respingente, con cui il lettore/buongustaio raggiunge il cuore succulento della poesia/carciofo. Perciò non smise mai di indagare il rapporto e il legame intellettuale tra autore e lettore, tra poeta doctus e lector doctus, dietro il quale è impossibile non intravvederlo, circondato dalla sua straordinaria biblioteca e dal fumo della sua pipa.
Nei saggi raccolti in questo volume emerge quanto il suo lavoro fosse guidato da sterminate competenze e dal gusto per le fonti della poesia virgiliana. In «Illusion and reality in Latin topographical writing», per esempio, discute dell’erudizione di Virgilio: una delle più grandi lezioni di Nicholas è stata senz’altro quella di indagare e valorizzare anche le fonti prosastiche, l’antiquaria, gli aspetti tecnici delle questioni, la storia, la mitografia, l’onomastica, la geografia, le allusioni dotte, l’erudizione appunto.
Nella nostra fitta corrispondenza trentennale, scrivendomi del suo lavoro su Virgilio, mi segnalava gli indirizzi delle migliori librerie antiquarie da frequentare nelle capitali europee dove mi recavo a studiare, e si mostrava sempre aggiornatissimo anche sulle novità bibliografiche, pur vivendo, negli ultimi anni, molto appartato. Da quando si era trasferito dai dintorni di Oxford nel remoto nord della Scozia aveva cominciato a firmare le sue prefazioni in maniera molto suggestiva: «Nicholas Horsfall, Dalnacroich, Wester Ross (o Ross and Cromarty)». Così nelle sue e-mail si raccontava volentieri immerso negli studi, dopo essere uscito a spaccare una buona dose di legna da ardere, sullo scenografico sfondo naturale delle Highlands, mentre la gatta ronfava sulla poltrona.
L’amore per la buona cucina e i vini, insieme alle amicizie, lo riportavano ogni anno in Italia. A Udine venne a tenere indimenticate lezioni virgiliane, ma più spesso ci davamo appuntamento nelle stazioni ferroviarie di Mestre o di Venezia Santa Lucia, quando passava da Padova, oppure ci vedevamo nel Senese, dove amava soggiornare in autunno. Ci eravamo ripromessi di trattare ancora questioni molto appassionanti, alle quali aveva già dedicato pagine fondamentali, che ritroviamo anche in questo volume: il rapporto di Virgilio con la cultura ebraica («Virgil and the Jews») o problemi di autenticità virgiliana («Fraud as scholarship: the Helen Episode and the Appendix Virgiliana»). E proprio a proposito di falsi continuerò a chiedermi quale sarebbe stato il suo punto di vista ‘definitivo’ sui quattro versi, unanimemente ritenuti non virgiliani, del cosiddetto pre-proemio dell’Eneide («Ille ego qui quondam…»), sui quali avevamo cominciato a discutere mentre lavorava al suo ultimo, incompiuto commento: Nicholas Horsfall si sarebbe divertito a tracciare un ‘ritratto’ del falsario?