Honour, trances notturne insieme a Canova
Un ricordo dello studioso inglese Hugh Honour, recentemente scomparso Interprete sommo del Neoclassicismo, ha animato gli studi con rara essenzialità, allargando a Oriente lo spettro degli oggetti. Civiltà e pettegolezzo, con il compagno John Fleming
Un ricordo dello studioso inglese Hugh Honour, recentemente scomparso Interprete sommo del Neoclassicismo, ha animato gli studi con rara essenzialità, allargando a Oriente lo spettro degli oggetti. Civiltà e pettegolezzo, con il compagno John Fleming
Virginia Woolf scrisse che avrebbe potuto lavorare a Orlando dopo il tè, nonostante avesse preso l’abitudine di comporlo alla rinfusa, a tutte le ore del giorno. Al contrario, nel suo ultimo anno di vita, lo storico dell’arte Hugh Honour, morto il venti di maggio a ottantotto anni, si dedicava al lavoro durante trances notturne. Quando l’ho visto per l’ultima volta, prima di Natale, mi raccontava che il testo che voleva scrivere sul suo amato Canova gli appariva, giunto a compimento, in una visione insonne, salvo poi svanire alle prime luci dell’alba. Il capolavoro è perduto, sebbene rimangano, come testamento di una gestazione durata una vita, appunti, foglietti inseriti nei classici sull’argomento, abbozzi parziali sparpagliati nel suo studio e accanto alla sua macchina da scrivere portatile – niente computer per Hugh.
La morte del suo compagno, John Fleming, nel 2001, può servire a spiegare il fallimento. Hugh e John firmavano insieme e da soli i loro studi, ma era John a prendersi cura di ciò che E. M. Forster definiva «vita», facendo sì che Hugh potesse dedicarsi liberamente alla scrittura. L’oggetto era Canova. Tanta energia era stata spesa per l’edizione nazionale delle lettere dello scultore, curata insieme a Paolo Mariuz. Hugh era assolutamente perfetto per un lavoro del genere, perché eccelleva nei pettegolezzi. Era a proprio agio nelle conversazioni sul bel mondo del Settecento, così come quando parlava del vicinato attorno a Lucca, dove abitava dal 1962. Il suo primo libro era incentrato sul maggior chiacchierone di quel secolo, Horace Walpole, la cui corrispondenza decennale con Horace Mann, console inglese a Firenze, era uno scambio vivace sugli avvenimenti quotidiani in Inghilterra e in Italia, proprio come le chiacchierate che avevano luogo durante i tè o gli aperitivi a casa Honour-Fleming, spesso nel giardino, riferivano di tutti i nuovi libri o ricerche di storia dell’arte di entrambi i paesi. Come per tanti espatriati britannici, i pettegolezzi animavano le loro vite. Hugh ha perfezionato quest’arte mantenendo un modo di parlare che non ha mai perso né la pronuncia shakespeariana ereditata dalla madre né le cadenze anni trenta della giovinezza – modo di parlare, che se non avesse lasciato la Gran Bretagna, avrebbe potuto evolvere in un inglese più moderno. Forse.
Se un aneddoto piccante produceva quei pochi sbuffi profondi che erano la risata fragorosa di Hugh, il pettegolezzo rappresentava in realtà una curiosità per il mondo, un modo per i due uomini di rimanere in contatto con esso. La prima formazione di quest’arte del narrare avvenne agli Scafari, la casa, nel golfo di La Spezia, di Percy Lubbock, editore dell’epistolario di Henry James e severo recensore sul «Times Literary Supplement» di Forster, della Woolf e di tanti altri. Il Craft of Fiction di Lubbock (1921) ha formato due generazioni di scrittori, anche se solo per reazione alle sue prescrizioni datate e alla James. John leggeva per Lubbock, che era quasi non-vedente, e Hugh, dopo la laurea a Cambridge, nel college di St. Catharine’s (‘Catz’), lo seguì. Hugh, grande imitatore, avrebbe imitato Lubbock mentre dice a Forster: «Morgan, un giorno capiranno quanto sono scarni i tuoi libri».
Fra i due, John era quello che nella coppia, nel raccontare una storia, manteneva un estro omosessuale, un’espressività teatrale e un tempismo perfetto nell’ironia, mentre Hugh poteva ridurre le storie alla lunghezza di una nota a piè di pagina: dono ideale per un curatore delle lettere di Canova, dovendo caratterizzare in poche righe un milord che aveva commissionato un’opera al grande scultore. Hugh era nato per le sintesi. Quando gli ho portato il catalogo di 824 pagine della collezione Berenson ai Tatti, potevo percepire il suo disappunto, poiché, in quanto co-curatore dell’opera, non ero riuscito a ridurre il libro a un peso tale da poterlo reggere comodamente sulle ginocchia.
Dopo Lerici, Hugh e John affittarono un villino ad Asolo, di proprietà della scrittrice di viaggio Freya Stark. Era vicino a La Mura di Nannina Rucellai, nipote di un’espatriata di Boston, Katherine Bronson, amica di Browning, Sargent, Whistler e James. In quel periodo, maturavano la Companion guide to Venice, e anni dopo, The Venetian Hours, libro su questo circolo ottocentesco. Ad Asolo, conobbero Allen Lane, l’incontro più importante per la loro carriera in comune. Fondatore della Penguin Books, Lane li assunse per curare diverse serie di libri d’arte. La prima trattava degli stili che hanno segnato la storia dell’arte: John Shearman scrisse il Manierismo, Linda Nochlin il Realismo, Honour il Neoclassicismo. Questa serie ha avuto un effetto enorme sull’insegnamento della storia dell’arte nel mondo anglosassone. Molti, me incluso, hanno letto questi libri nei primi anni universitari. Senza ombra di dubbio, è stato il pubblico studentesco a ispirare un manuale di storia dell’arte generale di uso universitario, pubblicato per la prima volta nel 1984. Hugh stuzzicava i suoi giovani conoscenti americani chiedendo, a proposito dei corsi generali di storia dell’arte negli Stati Uniti: «che cosa vuole lo studente?».
Hugh aveva opinioni molto precise. In quegli anni, l’interesse per l’arte asiatica aveva preso la forma di una divertita ossessione. Il suo primo studio artistico aveva riguardato le cineserie, ma l’attenzione si spostò poi verso l’Asia vera e propria. L’Asia di Hugh non era convenzionale. Nonostante il suo gusto si fosse formato verso la metà del Novecento, preferiva la grandeur imperiale della Cina di Qianlong (voleva sempre visitare la sua residenza estiva di Chengde) alla sensibilità della scultura Tang e Song, improntata a un’estetica più moderna. L’horror vacui della scultura di un tempio indiano o la danza invasata di Krishna erano, per lui, più interessanti di un Buddha di aspetto ellenistico proveniente da Peshawar. Degli dei hindi di pietra occupavano gli scaffali più alti della libreria e frammenti di stele cinesi erano esposti sopra il camino nella loro casa. Appropriatamente, il manuale di Hugh e John è stato intitolato A World History of Art, e infatti è stato incluso il mondo intero, anche se gli insegnanti meno avveduti possono saltare i capitoli sull’Estremo Oriente o sulle civiltà precolombiane.
Anche le sezioni sull’Europa praticano sconfinamenti: la cappella Pazzi di Brunelleschi e il coro di Heinzelmann e Roritzer nella chiesa di San Lorenzo a Norimberga sono trattati nello stesso paragrafo. Hugh ha dato valore all’essere succinto. Per illustrare le proporzioni dell’architettura di Brunelleschi, ha citato semplicemente il detto di Giannozzo Manetti secondo cui la verità del cristianesimo è evidente al pari delle leggi matematiche. Hugh e John sono andati a vedere quasi tutto ciò di cui hanno scritto, dal santuario di Wies di Zimmerman in Baviera alla statua di Jayavarman VII nel museo di Phnom Penh. Dovendo limitarsi a un’illustrazione per la Rivoluzione Industriale, scelsero brillantemente uno schizzo dell’architetto prussiano Karl Friedrich Schinkel del 1826, che raffigura le fabbriche di cotone in Union Street a Manchester. Si poteva intuire che ci fossero delle tendenze di sinistra nel passato di Hugh, anche se probabilmente quello che veniva allo scoperto era solo una razionale imparzialità. Sebbene non fosse vicino ad Anthony Blunt, incontrarlo in una mensa frequentata dalla classe operaia parigina convinse Hugh che le posizioni comuniste del curatore delle Collezioni Reali fossero genuine. La seconda serie per Penguin, «Art in Context», iniziata nel 1972, proponeva titoli che riflettevano le aspirazioni di quel periodo: David, Voltaire, Brutus and the French Revolution di Robert Herbet, e Goya. The Third of May 1808 di Hugh Thomas. Erano gli anni in cui veniva pubblicato Transformations in Eighteenth-Century Art (1967) di Robert Rosenblum, seguìto, nel 1974, dalla mostra itinerante French Painting, 1774-1830, the Age of Revolution. Entrambi assolvevano al mandato della generazione di Hugh (Rosenblum era del suo stesso anno), secondo cui gli storici dell’arte dovevano affrontare argomenti che avessero risonanza nella società contemporanea. Al contrario, le scelte per l’arte italiana per la serie «Art in Context», Heydenreich sul Cenacolo di Leonardo e Marilyn Lavin sulla Flagellazione di Piero, sembrano convenzionali. Ma, a differenza della maggior parte degli storici dell’arte stranieri in Italia, il Rinascimento possedeva poca attrattiva per Hugh e John. Scelsero le arti decorative e le sculture del Settecento come campi di ricerca privilegiati. Nel 1972, John Pope-Hennessy, direttore del Victoria and Albert Museum, coinvolse Hugh nella mostra The Age of Neo-classicism, patrocinata dal Consiglio d’Europa. Il solo americano nel comitato scientifico era Rosenblum e l’unico italiano Mario Praz. Anche Isaiah Berlin ne faceva parte. La breve introduzione di Hugh rivalutava vividamente quell’epoca di «richieste urgenti e cambiamenti radicali» e metteva in discussione alcune opinioni dominanti secondo cui quell’arte era fredda e formale, e gli architetti solamente, come sosteneva Ruskin, «uomini che ammiravano triglifi». Nel saggio, riporta le critiche contemporanee rivolte a Canova e David e il desiderio diffuso di rivoluzione. Hugh ci ricorda che persino gli allievi di David urlavano derisoriamente, davanti alle Sabine del maestro: «Van Loo, Pompadour, Rococò». E conclude mettendo a paragone le psicologie di David e di Ingres, con l’affermazione che l’età del neoclassicismo ha provato a produrre un’arte di «importanza eterna e universale».
Rivedendo l’opera di Hugh, quel che impressiona è la sua dedizione alla storia dell’arte come disciplina. A dispetto della sua villa polverosa e della sua macchina da scrivere, l’attualità di Hugh risalta. Ha compreso la necessità di riassestare i limiti del campo, pubblicando, nel 1989, un volume sull’immagine degli africani nell’arte occidentale, finanziato dalla Menil Foundation, poi ripubblicato con un’introduzione di Henry Louis Gates Jr., un commentatore televisivo popolare negli Stati Uniti e al contempo professore di studi afroamericani a Harvard. Mentre Hugh scriveva sull’arte di oggi, i suoi amici lo aiutavano a mantenere aggiornate le sue selezioni per il libro. L’ultima illustrazione della mia copia, la sesta edizione su sette, è My Bed di Tracey Emin.
Una vita dedicata alla ricerca sull’arte lo spronò a interessarsi alle sue origini primordiali, fra le caverne del sud-ovest della Francia e le incisioni rupestri di Monte Pellegrino, nei pressi di Palermo. Quando il manuale venne pubblicato, gli editori proposero di promuoverlo con un tour a Chartres, dove Hugh e John avrebbero accompagnato Neil Armstrong in una visita. Cosa avrebbe pensato il primo uomo sulla luna delle altezze slanciate della cattedrale? Accettarono, a condizione che l’editore procurasse loro un accesso a Lascaux. Armstrong era delizioso, ma a loro piaceva ancora di più Marcel Ravidat, l’uomo che scoprì le camere sotterranee nel 1940. Hugh provava lo stesso piacere da scolaretto nell’esplorare le caverne, che aveva provato il francese, quando, da ragazzo, scoprì accidentalmente le grotte. Ed è proprio la curiosità fanciullesca di Hugh che mancherà di più ai suoi amici.
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