I cinque milioni di profughi fuggiti dall’Ucraina in due mesi ci ricordano che spostarsi da un territorio all’altro se minacciati è una delle reazioni più tipiche con cui gli umani, da centinaia di migliaia di anni, reagiscono alle avversità. Eppure in tanti vedono le migrazioni come un atto ostile deliberato, e nel migrante un criminale. Questa visione miope nasce dallo stretto legame storico tra migrazioni e colonialismo che hanno portato classi e popoli dominanti a interpretarli a proprio vantaggio.
Il nesso tra evoluzione, migrazione e ideologia è sviscerato in profondità da un recente volume curato da Elena Gagliasso, Giulia Iannucci e Leonardo Ursillo, intitolato Ambienti e migrazioni umane. Una storia di ecosistemi (FrancoAngeli, pp. 180, euro 25), che raccoglie i punti di vista sul tema provenienti dalla paleontologia, dalla filosofia e dall’epistemologia, i campi dei tre curatori. Su un tema apparentemente già sviscerato, gli autori hanno il merito di scoprire angolature inedite per i non specialisti.

INNANZITUTTO, precisa in apertura del volume il paleoantropologo Giorgio Manzi, le traiettorie che hanno portato Homo sapiens fuori dall’Africa circa centomila anni fa non andrebbero definite «migrazioni», come spesso si fa nella pubblicistica anche benintenzionata. «Furono piuttosto – scrive Manzi – l’espansione geografica di un’intera specie o di parte di essa, con popolazioni che si diffondevano in nuove regioni inesplorate, per colonizzare le quali fu spesso necessario attendere che la selezione naturale facesse il suo corso (…) premiando le varianti genetiche più adatte alle condizioni climatiche e ambientali che le popolazioni incontravano». In quella fase primordiale, dunque, l’evoluzione biologica ha determinando successi e fallimenti nell’insediamento nei nuovi ecosistemi. Poi, una volta «invaso» l’intero pianeta, le migrazioni hanno seguito per lo più le rotte coloniali o quelle dei conflitti. A quel punto, le classificazioni su presunte basi biologiche tra le popolazioni migranti sono servite soprattutto a conservare tradizioni culturali antropocentriche o a giustificare i rapporti di dominio tra umani.
Ancora a fine Settecento, lo schiavismo era giustificato sulla base di teorie naturalistiche che privavano gli schiavi neri del loro carattere umano. Se arrivò a sostenere – lo facevano diversi naturalisti, che scimpanzé e orangutan fingessero di non saper parlare «per non essere costretti dall’uomo a lavorare», racconta Ursillo. Questo legittimava ad «accostare alcuni esseri umani a forme scimmiesche di carattere primitivo», cosicché persino nella classificazione linneiana l’Homo africanus niger finì accanto allo scimpanzé classificando «l’africano come una specie inferiore e di cerniera fra i due generi».

ANCHE DOPO l’affermazione della teorie darwiniane la ricostruzione dell’evoluzione della nostra specie è stata a lungo (e lo è ancora oggi) influenzata queste narrazioni, più forti delle evidenze scientifiche. Per gran parte del XIX secolo molti naturalisti hanno sostenuto la teoria dell’origine asiatica dell’umanità a partire dal tarsio, una piccolo primate. «Considerare il tarsio come l’antenato comune dei primati significò, di fatto, svincolare la storia dell’uomo dall’Africa e dalla degradante linea evolutiva delle scimmie», spiega nel suo contributo David Ceccarelli.
Un inaspettato sostegno all’evoluzionismo e all’unicità della specie umana, contro i teorici del razzismo e dello schiavismo, è giunto dalla teologia dell’800, spiega Ursillo, perché quelle teorie si accordavano meglio con la discendenza da un unico «Padre» narrata nella Bibbia. Ma finì per favorire l’ipotesi di un progenitore comune a scimmie e umani, tutt’altro che gradita alle religioni Creazioniste. Echi dell’Eden si percepiscono nella vulgata secondo cui discenderemmo tutti da «Lucy», il primo scheletro che testimonia l’andatura bipede degli ominidi di due milioni di anni fa. Invece, la paleoantropologia più recente ha fatto emergere un quadro più ingarbugliato. Homo sapiens è solo una delle specie umane che ha abitato il pianeta. Per gran parte della nostra storia, lunga almeno duecentomila anni, abbiamo convissuto con altre specie umane. Solo da 40 mila siamo gli unici Homo in circolazione. E non durerà per sempre.