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Hollywood ai tempi del digitale

Hollywood ai tempi del digitale

Hollywood Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google ricreano Los Angeles e l’industria modificando l’architettura urbana

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 31 luglio 2019
Luca CeladaLOS ANGELES

Chi avesse visitato Los Angeles alla fine degli anni 80 o nei 90, ricorderà forse il West Side Pavillion, prototipo di centro commerciale degli anni d’oro. Vicino a Westwood, rappresentava allora il non plus ultra degli ambienti commerciali a tema: 55.000 m2 di interni climatizzati e ottimizzati per il consumo ritualizzato in svago, una specie di galleria kitsch-parigina sovrastata da un grande lucernario in vetro per irrorare di luce appropriatamente diffusa le griffe iconiche negli anni in cui i shopping mall imperversavano come luoghi topici e surrogati di centri urbani. Anche per questo la sua chiusura e reinvenzione come campus di Google è la rappresentazione tangibile del trionfo dell’e-commerce, del passaggio dal vecchio capitalismo mercantile alla digitocrazia imperante, un modello, che dopo aver impattato radicalmente la baia di San Francisco sta trasformando anche il volto di Los Angeles.
La conversione del Pavillion non è l’unico caso, in città il fenomeno si sta ripetendo sempre più frequente. Di pari passo con la transizione da cinema e tv al predominio globale delle piattaforme streaming, un boom edilizio sta ridisegnando con impressionante velocità i connotati della città e creando quartieri ex novo. Playa Vista, detta «Silicon Beach» ad esempio è l’espressione urbana del sincretismo sempre più completo fra Hollywood e le divisioni «content» di Silicon Valley: cento anni dopo la città del cinema sta cambiando ad immagine e somiglianza della rivoluzione dei contenuti digitali.

AI SUOI ALBORI la Los Angeles era stata in gran parte plasmata dall’industria che aveva tenuto a battesimo. Interi distretti erano nati attorno al cinema, a cominciare da Silverake sulle cui strade sterrate Mack Sennett girava le comiche ricorse dei Keystone Kops e dalla vicina Edendale, regno dei Western di Tom Mix e Gene Autry. Le major avevano poi costruito teatri di posa a Hollywood e Culver City quando erano ancora poco più che prateria. E la città aveva finito per crescere attorno ai loro comprensori, cingendoli di abitazioni, linee dei tram (le Red Cars) poi freeway e macchine, milioni e milioni di auto.

ERA STATO FACILE allora sradicare gli aranceti e alzare i muri di cinta: Warner Bros, Rko e Paramount a Hollywood, Disney a Burbank, la Mgm a Culver city. Allora quei quartieri erano poco più che campi agricoli rilevati da agenzie immobiliari quando la speculazione edilizia si era fatta più lucrosa dei pozzi di petrolio. Dietro ai cancelli monumentali sorvegliati dagli uomini in divisa, i mogul venuti d New York avevano inventato la fabbrica dei sogni e tutto attorno sarebbe sorta una nuova città che non era mai stata davvero figlia dell’industria o della finanza come le sue predecessore, ma di questo strano cantiere dell’immaginazione che ne ha ingigantito sin dall’inizio l’immagine, e le velleità. Fra palme, ippodromi arabeggianti e ville a forma di castelli francesi, Los Angeles ha sempre un po’ rispecchiato le scenografie dei set crescendo con un senso di illimitata possibilità replicato nella sua architettura.
Dissolvenza al presente: per raggiunti limiti di estensione, la città rifluisce su se stessa. Per molti versi è una città centroamericana, la realtà ha invaso la fantasia – sui marciapiedi vivono a decine di migliaia gli homeless. Dopo decenni di white flight in cui le classi medie (e bianche) rifuggivano il centro per le periferie idealizzate, le nuove generazioni riscoprono il frisson dell’esperienza cittadina, il fascino della densità urbana e perfino – gulp! –l’emozione di esotiche deambulazioni pedonali una volta appannaggio di newyorchesi e spaesati turisti. Orde di hipster hanno colonizzato il vecchio centro dove Apple store e franchising del cannabis hanno aperto accanto ai movie palaces dei tempi del muto. Le car sharing elettriche e soprattutto gli ubiqui monopattini via app promettono di rompere una buona volta il monopolio delle auto.

E SONO ARRIVATI altri magnati – non dalla East Coast stavolta, ma da nord, l’eterna rivale della Bay Area. I nuovi mogul hanno nomi come Ted Sarandos e Jeff Bezos, e le rispettive aziende –Netflix e Amazon Studios (divisione entertainment del gigante di Seattle) – hanno da poco inaugurato quartieri generali nuovi fiammanti che annunciano inequivocabilmente la loro egemonia. Le grandi piattaforme digitali portano fiumi di denaro, proventi del monopolio digitale e, anche se le sedi storiche e gli eserciti di coder rimangono a nord, hanno aperto bottega a LA dove rimane l’infrastruttura creativa e industriale dello spettacolo (talent, produttori, agenti).

MENTRE CINEMA e le serie che hanno in gran parte preso il suo posto, traslocano sulle piattaforme, Silicon Valley insomma ha stabilito una testa di ponte necessaria nel centro della macchina produttiva. I «nerd del nord» sono calati in città con la loro aria di giovani tecnocrati, provenienti dalle anonime suburbie di Palo Alto e Mountain View portando una ventata di minimalismo nella capitale dell’eccesso ma adottando anche l’ostentazione che il mondo dello spettacolo porta nel Dna, senza badare a spese. A Culver City la Amazon ha appena inaugurato la nuova sede Amazon Studios dirimpetto agli storici studios Culver (dove è stato girato Via Col Vento) e poco lontano il lavoro ferve nei cantieri Apple che inaugurerà prima della fine dell’anno la propria piattaforma di programmi originali – nella nuova sede di LA lavoreranno 1000 impiegati della divisione content dell’azienda di Cupertino. In attesa di installarsi nell’ex shopping center, Google ha intanto occupato il vecchio Hangar di Mar Vista dove Howard Hughes teneva il suo mastodontico idrovolante, lo Spruce Goose. Lo stile di questi edifici e comprensori è importato da Silicon Valley ed ibridato con gli spazi aperti e solari della California meridionale, quindi abbondanza di verde e terrazze, giardini pensili, luce naturale che filtra da grandi lucernari e spazi per il relax e la socialità come si confà ad ogni buon campus tech dove un tavolo da ping pong, un materassino da yoga o un frullato di avocado e quinoa è sempre a portata di mano.

LA SIMBIOSI produce una versione riveduta degli stessi studios cinematografici che contenevano ogni servizio produttivo, ma aggiornata a quel mix di iperproduttività ed edonismo tipicamente digital. Lusso quindi ma con taglio salutista, punti ristoro con menu pieni di vivande instagrammabili – ma meno ascensori e scale mobili dato che fare scale è più aerobicamente corretto e preferito dalla forza lavoro millennial. Tutto rigorosamente all’interno del perimetro per minimizzare il bisogno di uscire e allontanarsi (non sia mai) dal luogo di lavoro in cui notoriamente i forzati del digital passano un numero spropositato di ore. Malgrado recenti flessioni di mercato che hanno polverizzato 20 miliardi di capitalizzazione, Netflix è la new company che più agisce come un mega studio. La società ha trasformato in cantiere grandi tratti di Sunset boulevard e zone limitrofe all’estremità orientale di Hollywood, verso i quartieri armeni e tailandesi. Qui, a ridosso della Hollywood freeway, sono sorti gli imponenti quartieri generali, un edifico simile ad una serie di parallelepipedi stratificati che potrebbero vagamente ricordare dei decodificatori impilati. Sempre sull’asse del viale del tramonto sono in via di costruzione altri due complessi. Poco lontano, dirimpetto alla Paramount sono stati requisiti per intero i locali del vecchio Raleigh Studios diventati dependance per la promozione dei programmi di «Big N»: la rappresentazione plastica dello strapotere di mercato.

IL TUTTO ha letteralmente spostato il baricentro della industry molto ad est rispetto ai vecchi centri di potere di Beverly Hills e West Hollywood. Nel calcolo delle dozzine di proiezioni per addetti ai lavori che si svolgono ogni sera in città, ad esempio, è noto che il migliore popcorn è proprio quello della Netflix. Se non bastasse c’è l’atrio, i cui muri sono schermi a definizione 4K che rimandano immagini avvolgenti delle serie di casa. Più in la, oltre il muro di piante viventi, ci sono le toilette dove gli avventori troveranno non solo le pastiglie per rinfrescare l’alito ma anche spazzolini monouso preimpastati di dentifricio. A conferma dei mutati rapporti di forza l’atrio è diventato passaggio obbligato per i grandi nomi di Hollywood e oltre. Un viavai di star, produttori e politici e generalmente creativi a caccia di una pezzo degli $8 miliardi di dollari che l’azienda spende ogni anno in produzioni originali. La sede, già inserita sugli itinerari delle guide turistiche, è come ha dichiarato Sarandos, content officer di Netflix, «un edificio che dichiara chi siamo e cosa intendiamo fare.»

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