Un luogo di mare in Liguria, un albergo come tanti ve ne sono in Riviera, due ragazze del posto alle prese con le scoperte di un’età che non suggerisce risposte ma incita a chiedere e a pretendere. Ovviamente le domande sul sesso, le timorose insubordinazioni, i conflitti spesso incomprensibili, le cattiverie gratuite, il conforto di un’amicizia. Intorno a loro, a Veronica e Giada, un mondo caotico privo di indicazioni, se non quelle fastidiose di adulti normativi che non tollerano variazioni sul tema. Come in un circolo vizioso, ci si ribella per poi ritrovarsi puntualmente a fare le stesse cose degli altri.
Improvvisamente un delitto. Una vasca piena di sangue, due cadaveri che non hanno più un futuro. Quelli della madre di Veronica e di un uomo che prima di allora non sembrava far parte del quadro. Il processo, e quindi un pubblico ministero che sa già tutto, il cui ruolo prevede di non manifestare dubbi e di formulare certezze. Ancora giudizi, deduzioni, interpretazioni che tracciano l’esatto andamento degli eventi, che perimetrano le intenzioni di una giovane donna definita allo sbando. L’accusata è la figlia, e chi altro potrebbe essere stato se non quella ragazza mal voluta, eccentrica, repressa, costantemente fuori fuoco?

VISTO in questo modo, Holiday di Edoardo Gabbriellini, presentato alla Festa del Cinema di Roma (concorso Progressive Cinema), appare come uno dei tanti film di genere ambientati nella torbida provincia italiana. Un noir con un verdetto da attendere, un dramma famigliare nel quale l’imputata è colpevole prima ancora che si entri in aula e con una vittima che potrebbe aver sollecitato la mano dell’omicida, dandole un movente.
Giunto al suo terzo lungometraggio, con una carriera da attore, tra gli altri, per Paolo Virzì, Lucio Pellegrini, Gianni Zanasi e Luca Guadagnino, che di Holiday è anche il co-produttore insieme a Olivia Musini e Lorenzo Mieli, Gabbriellini ha scelto una via narrativa meno ovvia, dal ritmo sincopato. Ha sezionato la vicenda ricomponendola (grazie al montaggio di Walter Fasano) in un alternarsi di tempi e luoghi, di situazioni precedenti e successivi al fatto intorno al quale gira tutta la storia. E, paradossalmente, è proprio il crimine a finire sullo sfondo, a sfuggire allo sguardo.

VERONICA, sappiamo sin dalle prime battute, è stata giudicata innocente. Questo non basta. Impossibile tornare alle fantasie, ai desideri di cui si ha un po’ di paura. Quella ridente località di mare è ormai terra di incubi, una sorta di trappola. Restare o fuggire?
Esiste un prima, dunque, e un poi. In entrambi i momenti Veronica non sceglie, non riesce a impossessarsi della propria esistenza. Segue un flusso, una corrente agitata da sua madre, dalle amiche, dall’opinione pubblica che ha deciso quale sia la verità e che si sente autorizzata a esprimersi con spietata volgarità, senza timore di passare sopra una vita, di demolirla come si trattasse di un gioco. Di un orrendo gioco.

A differenza di quei lavori che attraverso un determinato espediente narrativo provano a indagare una realtà sociale, a raccontare un territorio o un conflitto di classe, in questo caso il regista (che ha scritto la sceneggiatura con Carlo Salsa) si è concentrato maggiormente sull’emotività, su qualcosa di più intimo ed esistenziale, evitando di elaborare spiegazioni, di rimettere al loro posto tutte le tessere del mosaico. Veronica è un personaggio che potremmo incontrare ovunque, in differenti regioni, luoghi di lavoro, famiglie o comitive. Ed è una ragazza che rincorre se stessa prima che siano altri a prenderla.