Hockney, guardare in Normandia
Martin Gayford, "Travolgente primavera. David Hockney in Normandia", Einaudi "Saggi" Nel libro-intervista, dalla sua postazione La Grand Court, il pittore inglese riflette sugli spazi di lavoro, il trasformarsi degli alberi, il flusso del tempo, gli artisti prediletti, su tutti van Gogh...
Martin Gayford, "Travolgente primavera. David Hockney in Normandia", Einaudi "Saggi" Nel libro-intervista, dalla sua postazione La Grand Court, il pittore inglese riflette sugli spazi di lavoro, il trasformarsi degli alberi, il flusso del tempo, gli artisti prediletti, su tutti van Gogh...
E’ un pensiero elementare, ma di fronte ai famosi quadri di Hockney degli anni sessanta come A Bigger Splash, la prima sensazione è quella di una gioia per il colore, per la vita, per la giovinezza. Nella California di quegli anni l’artista aveva scoperto di poter spingere i propri desideri e le proprie libertà oltre i limiti della grigia cultura conservatrice britannica, e il colore, nella luce di Los Angeles, era deflagrato in aurore boreali trasparenti e purissime.
Sarebbe naturale pensare, mezzo secolo dopo, allo stesso artista ripiegato sulla nostalgia per quei decenni entusiasmanti, perché, dice, di quei vecchi spazi bohémien di New York e San Francisco e Parigi «il denaro si è preso ogni cosa» e «se i giovani non possono viverci, le città muoiono». Inoltre, come nella «vecchia e noiosa Inghilterra», «mi sembra che i malvagi siano tutti di nuovo usciti allo scoperto!». Hockney rimanda alle costrizioni puritane dei conservatori di oggi, ai problemi sociali causati dalla gentrificazione, alle discussioni sui diritti negati alle donne e alle minoranze. Poi, con garbo, nel recente libro-intervista Travolgente primavera David Hockney in Normandia (Einaudi «Saggi», pp. 280, euro 32,00), Martin Gayford gli fa notare che affermazioni quasi identiche erano già in interviste di decenni fa. Perché Hockney è da sempre infastidito dai divieti, dalle ipocrisie, quindi dall’odio per sé stessi che nasce dalla frustrazione e dall’impossibilità di omologarsi. Ma è tutt’altro che un disordinato bohémien. La sua giornata si divide in fasi lavorative regolari, e il lavoro è totalizzante, come quello di Van Gogh nella piccola Casa Gialla di Arles – non a caso citata spesso.
Pagina dopo pagina le abitudini quotidiane diventano uno degli argomenti centrali del libro perché le opere presentate, così come le interviste e i materiali raccolti, sono nati durante la pandemia da Covid-19, con le sue quarantene e i suoi tempi dilatati. In questo senso, il titolo originale è molto più esplicativo: Spring Cannot be Cancelled.
L’incipit è un cambiamento geografico, che nell’artista inglese prelude a una nuova impresa: la luce e il paesaggio sono da sempre tra i suoi temi ricorrenti, ma trovano interpretazioni diverse in luoghi diversi. Dopo venticinque anni a Los Angeles, all’inizio di questo secolo Hockney è tornato sulle colline degli Yorkshire Wolds che aveva esplorato da ragazzo: come Constable, lavora sui paesaggi della sua giovinezza, ma con metodi nuovi. Alberi, tramonti e colline verdi dei dintorni di Bridlington sono dipinti su grandi tele e tracciati su carta, ma anche, dal 2010, sullo schermo dell’iPad, o ripresi con più macchine digitali ad alta definizione. Dopo il sole costante della California, a Brid Hockney ritrova l’inverno, la pioggia, i cambiamenti drastici di luce lungo le giornate e l’effetto delle stagioni sul paesaggio e sulle piante. Disegna tutto, soprattutto alberi, perché è affascinato dai loro volumi, dalle trasformazioni cicliche, sempre uguali ma sempre diverse; l’incanto è ridotto in linee, punti, macchie.
Nell’autunno 2018, dopo alcune tappe in Francia, si concretizza un nuovo desiderio: «andare in Normandia per vedere sbocciare la primavera del 2019». Così, coadiuvato dall’assistente storico Jean-Pierre Gonçalves de Lima, Hockney acquista una casa, La Grand Court, e vi si traferisce dopo una rapida ristrutturazione. Lo studio è nella tenuta, poco distante dalla casa, circondato da piante e silenzio. Alberi di mele e pere, ciliegi carichi di foglie e fiori diventano i soggetti di lunghe osservazioni e poi di disegni e dipinti: «ho bisogno di un posto così». Ovviamente si gioca con i confronti, perché lo studio è il centro del mondo – e a maggior ragione a pandemia in corso –, la concretizzazione architettonica del proprio mestiere e dei propri estri creativi, il luogo dove l’immaginazione diventa oggetto: perciò nel dialogo emerge il ricordo di vecchi laboratori, delle visite agli ateliers di colleghi e amici, o degli spazi di lavoro di grandi pittori delle generazioni precedenti. I prediletti sono gli artisti che usano le loro opere e i loro spazi quali soggetti, come Courbet, Braque, Van Gogh, o chi pensa in termini collettivi, mescolando vita e lavoro in legami d’amicizia e insieme collaborazione; in entrambi i casi il lavoro e l’esistenza coincidono. Jean-Pierre finisce per essere factotum e soggetto, come Juan de Pareja per Velázquez.
Poi c’è la relazione tra la casa e l’artista, che diventa simbiotica. Anche qua Hockney e Gayford hanno delle preferenze: ovviamente Monet a Giverny, con la giornata scandita dalla luce del sole, con il giardino isolato in microcosmo a sua misura e aggiustato perché avesse un effetto migliore sulla tela, ma anche Matisse, Bonnard, Vermeer. La loro prospettiva è ridotta a piccole porzioni di paesaggio con le quali hanno dimestichezza, magari visibili dalla finestra di casa, come il Pacifico che invadeva l’appartamento a Malibu nei quadri degli anni ottanta, come gli angoli sgraziati della Casa gialla di Van Gogh. Così La Grand Court, decorata con i dipinti che ritraggono le stesse stanze, è un’immersione totale, attraverso lo sguardo, nel presente di Hockney: «Lo spazio interiore e quello esteriore sono simili, non trovi? Non si può arrivare ai confini dell’universo neanche con una nave spaziale. Tanto vale provare ad andarci in autobus. In fondo sono accessibili solo nella propria testa».
Le distanze si legano alla pregnanza dello sguardo. Perché – così l’artista inizia un’altra conversazione poi diventata libro, Una storia delle immagini. Dalle caverne al computer, Einaudi 2016 – «ogni immagine, più che del soggetto, ci parla dello sguardo dell’autore».
Qua e là Hockney sembra parafrasare Michael Baxandall o David Freedberg, di cui ha letto i testi principali. Come, del resto, quando cita Leonardo o Bellini o Hiroshige per alcuni problemi strettamente pittorici lo fa, senza tracotanza, per andare dritto al punto, lasciando a volte sottotraccia gli scambi costanti con studiosi come Martin Kemp o i rapporti con altri artisti come Francis Bacon o Lucian Freud.
Quindi: guardare, osservare a lungo, fa il pittore. Per questo, in un’altra vecchia dichiarazione (da A bigger message. Conversazioni con David Hockney, Einaudi 2012, probabilmente la conversazione trascritta più importante dell’artista) Hockney dice: «Picasso era un profeta», perché «ha guardato più volti che qualsiasi altro, ma non li guardava come un fotografo. Pensava a come li avrebbe disegnati». Vedere di più, anche nelle persone, è «questione di occhio – e di cuore». I dipinti, quindi, «ci permettono anche di vedere cose che altrimenti non saremmo in grado di vedere». Perciò i suoi paesaggi degli ultimi vent’anni enfatizzano quello che di norma si ritiene statico come i colori di un ciottolo o di una foglia. Hockney ravviva attraverso accostamenti e segni grafici precisi, quasi elementari, o formando, in alcuni casi, serie o brevi film animati. E se catturare il flusso del tempo è impossibile, un quadro, a differenza di una fotografia, può contenere intervalli più lunghi: ore, giorni, settimane, persino anni.
L’artista cita la Recherche di Proust. I volumi del romanzo formano un unico intricato mosaico di istanti diversi, o luoghi vissuti in momenti diversi o osservati da diverse prospettive. Nella Recherche tutto si integra, come nella realtà cubista di Braque e Picasso. E così cerca di fare Hockney: nei collage fotografici degli anni ottanta, nei panorami con più punti di fuga nati dai viaggi in auto nel paesaggio californiano o in quelli, su carta o iPad, messi in sequenza quasi ritmica, sull’esempio dell’amato Arazzo di Bayeux.
Niente si può saldare nella memoria con un’unica occhiata. Serve tornare nei luoghi, interiorizzarne i cambiamenti stagione dopo stagione, per creare immagini «tra il sofisticato e l’inequivocabile» – sono aggettivi di Gayford – che non siano, come quasi tutte quelle con cui siamo bombardati, semplicemente dimenticabili.
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