Hockney, acrilica comédie humaine
A Venezia, Ca' Pesaro, "82 ritratti e una natura morta" Una carrellata di ritratti: stessa postazione, stessa gamma cromatica. David Hockney ne fa un laboratorio di investigazione psico-sociale
A Venezia, Ca' Pesaro, "82 ritratti e una natura morta" Una carrellata di ritratti: stessa postazione, stessa gamma cromatica. David Hockney ne fa un laboratorio di investigazione psico-sociale
Titolo ironico e intrigante, per l’ultima fatica dell’ottantenne David Hockney: 82 ritratti e 1 natura morta. La mostra che presenta queste opere, curata da Edith Devaney della Royal Academy of Arts di Londra, compie il suo primo passo a Venezia, alla Galleria Ca’ Pesaro, dove resta fino al 22 ottobre (catalogo Skira,euro 37,00); farà poi tappa al Guggenheim di Bilbao e successivamente al Los Angeles County Museum.
Mentre Parigi celebra al Pompidou la vasta produzione passata di Hockney, capace sempre di rinnovare i mezzi tradizionali del disegno e della pittura e di interpretare i nuovi media verso un’originalissima e spiazzante ricerca figurativa, Venezia, ancora in clima da Biennale, espone gli ultimi esiti della sua produzione interamente pittorica.
La mostra è all’apparenza molto semplice. Si compone di ottantatré opere realizzate dal luglio del 2013 al marzo del 2016, configurate come una serie di dipinti ad acrilico su tela di formato omogeneo: 121,9 x 91,4. A una lunga galleria di ritratti di amici, conoscenti e familiari si contrappone come eccezione una natura morta. Tutti i quadri sono collocati rigorosamente in verticale, tranne un doppio ritratto in orizzontale. L’effetto d’insieme, controllato e uniforme, rappresenta un vero e proprio laboratorio di investigazione dell’«umano». Non a caso, in un primo momento, era emersa l’intenzione di attribuire a questo corpus di opere un titolo ispirato a La Comédie humaine di Balzac. Ore e ore di lavoro, svolto con acribia rigorosamente calendarizzata, hanno impegnato Hockney nel dipingere dal vero i suoi modelli, al punto da fargli rivelare che quando «ho un soggetto in posa davanti a me, mi chiedo sempre dove finisca io e inizi lui». Certo, presi singolarmente, i ritratti hanno perlopiù una pennellata disinvolta e spesso negligente. Ma il connubio di metodo uniforme e umana partecipazione è sicuramente il più potente e tangibile risultato di questo lavoro «collettivo».
A unificare la serie è la gamma cromatica, tendenzialmente neutra, dello sfondo, giocata su una bicromia cangiante di tonalità di blu, verdi, viola e turchesi, con varianti di saturazioni e trasparenze che si ridefiniscono di quadro in quadro. Al centro vi è sempre la stessa sedia in legno con schienale e seduta tappezzati in giallo, dove ai modelli viene chiesto di rispettare una posizione da loro scelta nell’arco delle tre sessioni canoniche da sei ore ciascuna, a promemoria della quale un assistente di Hockney segna a carboncino la posizione dei piedi. Un espediente, questo, appreso nel 2002 da Lucian Freud, al tempo in cui, dopo più di cento ore di lavoro sotto il suo sguardo impietoso, David vide trasformare il proprio volto aperto e ironico in una preoccupante e forzata effige brunastra dai malinconici occhi azzurri.
L’istinto grafico di Hockney fa prevalere il disegno che, a suo dire, «determina il dipinto». La pittura che ne scaturisce è di conseguenza tendenzialmente piatta, nonostante momenti di riuscitissimi volumi, stoffe cangianti e sensuali incarnati. La qualità pittorica della serie migliora di tela in tela. L’artista ha dovuto cambiare la soluzione acrilica in corso d’opera, optando per una qualità di vernice a essiccazione più lenta. Di qui il miglioramento degli impasti, spennellati con strategia sempre diversa, in modo da creare ulteriori movimenti all’interno della singola opera e tra gli elementi della serie. Le campiture che si addensano e si distendono si fanno più fluide, permettendo una maggiore semplicità di linguaggio, un tendere perenne tra la schiacciata prospettiva pop e l’elegante delicatezza del Beato Angelico, per Hockney una delle stelle polari di sempre.
Lo storico dell’arte Tim Barringer, in catalogo, ci ricorda che, nel 2005, Hockney aveva realizzato un’importante tela in verticale, Self-portrait with Charlie, dove si ritraeva in piedi con i pennelli in mano davanti a un quadro, citando le Meninas di Velázquez. A differenza del grande spagnolo, il britannico alle sue spalle non ha il mecenate, ma Charlie Scheips, uno dei suoi assistenti, seduto su un tavolo. Dunque il soggetto da dipingere è per Hockney una precisa scelta dell’artista. I ritratti non sono commissionati. Le persone sono scelte in base a un particolare legame col pittore, per cui divengono i soggetti privilegiati del suo sguardo. Ed è questo un elemento importante degli 82 ritratti e 1 natura morta. Nel saggio Faces del 1987, Hockney afferma: «Penso che per il modo in cui disegno, più conosco una persona, più interessante sarà il risultato. Non mi piace veramente impegnarmi per una somiglianza. Mi pare in un certo senso uno spreco di fatica – se non conosci una persona, non puoi capire veramente se hai colto la sua somiglianza».
Per questo specifico modus operandi, la mostra potrebbe essere letta anche attraverso i legami dell’artista, spaziando dalla riflessione psicologica al milieu sociale, fino al più banale gossip. Tra i ritratti dei suoi collaboratori, amanti, familiari, amici e figli di amici, si ritrovano, tra gli altri, la calma ieratica dell’artista John Baldessari, la posa spigolosa e seccata del banchiere Jacob Rothschild, l’impazienza del mercante d’arte Larry Gagosian. Ma a inaugurare la serie è un non-ritratto, quello del suo assistente Jean-Pierre Gonçalves de Lima, colto con la testa tra le mani, il volto chino e i gomiti appoggiati alle ginocchia, che ricorda la posa di Un uomo anziano nel dispiacere di Van Gogh. Un ritratto della disperazione, dunque, causata dalla morte accidentale di un altro assistente di Hockney. Anzi, un doppio ritratto: quello dell’artista rispecchiato nella sofferenza del suo aiutante.
A cementare il legame della produzione attuale con quella passata, non mancano in mostra i ritratti di amici che ritornano più volte nell’opera di Hockney. Un caso specifico è quello della stilista e disegnatrice di tessuti Celie Birtwell, sua amica e vera e propria musa ispiratrice per oltre cinquant’anni. La si ricorda in Mr and Mrs Clark and Percy, capolavoro degli anni settanta. Immediatamente acquistata dalla Tate, l’opera fa parte della serie di interni dei conversation piece, dove Celie è colta in piedi di fronte all’ex marito Ossie Clark, seduto col gatto bianco sulla gamba. E ancora nel collage fotografico del 1983, dove è, insieme ai figli, parte di quelle composizioni di foto Polaroid che sfidano la dittatura spazio-temporale dell’istantanea, offrendo la simultaneità dei punti di vista sui soggetti e la durata temporale propria dei primi dipinti cubisti di Braque e Picasso.
Nella galleria degli 82 ritratti è presente come un corpo alieno un’unica natura morta. Al di là dell’intelligenza e del senso dello humor di Hockney, capace attraverso questo espediente di spezzare la monotonia della serie e di rivitalizzare l’attenzione attraverso un effetto di estraniamento, questa opera sembra rappresentare un significato più profondo. Il caso sarebbe nato dalla morte di Stanley Grinstein, direttore di una storica stamperia di Los Angeles. Quel giorno, il 6 marzo del 2014, avrebbe dovuto posare per il ritratto Ayn, la figlia di Stanley, che ovviamente non poté essere presente. Hockney allora sistemò della frutta su una panca blu, esattamente come per ogni altro ritratto: le assi di legno della panca ricordano quelle di una bara e la frutta posta sopra una luminosa offerta di vita.
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