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Hleb Papou, per un cinema dello scontro

Hleb Papou, per un cinema dello scontro

Intervista Incontro con il regista, al suo esordio con il lungometraggio «Il legionario», prossimamente a Locarno

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 31 luglio 2021

Nella selezione ufficiale della prossima edizione del Festival di Locarno c’è l’esordio di un giovane italiano che è anche un giovane bielorusso, un regista che ama e fa il cinema di genere e che è anche un autore tra i più promettenti del panorama italiano, un esordiente che porta in uno dei festival più importanti del mondo un lungometraggio che ha lo stesso titolo del cortometraggio dal quale ha preso origine, Il legionario. Di seguito un breve scambio con Hleb Papou, un pezzo della nuova generazione dei cineasti del presente del quale si sentiva la mancanza e che si prepara a presentare al pubblico il suo primo passo ufficiale nel gioco del cinema adulto, raccontando una seconda volta la storia di un celerino nero, italiano, chiamato a sgomberare la casa occupata dalla sua famiglia.

Come ci sei arrivato qui?
Sono nato a Minsk, nel 1991, ho iniziato a venire in Italia in vacanza quando avevo cinque anni, poi mi sono trasferito insieme a mia madre a Lecco. Dopo le superiori sono venuto a Roma a studiare al Dams con l’obiettivo di riuscire a entrare al Centro Sperimentale. Mi sono diplomato in regia con il cortometraggio Il legionario dal quale è stato poi sviluppato il mio primo lungometraggio.

A me e agli altri due autori (ndr. Giuseppe Brigante e Gabriele Mochi) piaceva l’idea di esplorare il corto in una versione più lunga. Ho incontrato la Clemart, la casa di produzione, che stava facendo scouting al CSC attraverso un pitch. Senza conoscere nessuno, senza entrare in logiche romane, alla fine ho firmato il mio primo contratto per fare un film.

Il tuo corto colpisce perché è una storia del presente tutt’altro che scontata e al contempo un racconto profondamente legato all’attualità. Questo mi pare leghi in due modi il tuo primo lungo all’autobiografia: l’essere stranieri nel luogo in cui si vive, e poi la violenza dello Stato, la violenza della Legge. Considerato anche che dall’Italia hai sempre seguito e raccontato l’evoluzione degli eventi nella Bielorussia di questi ultimi anni.
Qualcosa magari anche solo di inconsapevolmente autobiografico ci deve essere stato. Raccontare la storia di uno straniero nato e cresciuto in Italia, nero, per rendere la cosa più evidente, per esempio. C’è poi la questione della violenza: il reparto mobile in Italia è stato definito anche «la violenza legalizzata» che purtroppo però – e questa è la mia conclusione – è indispensabile perché nessuno vuole vivere, me per primo, in uno stato di polizia, però penso che vorrei avere delle forze dell’ordine che mi proteggano. Questa analisi nel film è anche provocatoria: se un reparto di polizia in Italia è considerato di destra, perché un ragazzo di seconda generazione non ci può entrare? Diritto all’autodeterminazione, ma anche diritto di essere un bastardo secondo la legge, che non è solo dell’italiano bianco da venti generazioni. Io sono cittadino bielorusso e italiano. Per me il futuro dell’Italia è multietnico. Le seconde generazioni rappresentano una parte importante di questo paese, ormai mi pare non sia più un mistero. La storia delle case occupate, che è una cosa di cui si parla solo quando ci sono gli sgomberi, è un problema importante. Il palazzo dove abbiamo girato il film si trova a Roma, in via Santa Croce in Gerusalemme: non è un luogo di periferia. Non volevamo fare il classico film «intellettuale» sulla periferia romana. Non volevamo raccontare la solita storia triste di gente triste che fa cose tristi e alla fine diventa ancora più triste. Ma raccontare un’Italia del presente e mostrare che non è più la stessa di cinquant’anni fa: perfino la celere sta cambiando.

In Italia vieni facilmente catalogato, in Italia sei quello che fai. E invece la realtà è diversa: ci credi se ti dico che nelle case occupate dove abbiamo girato c’è gente che vota Lega? E d’altra parte nella mobile ci sono poliziotti di centro sinistra.

A questo proposito: la storia è del tutto inventata o hai conosciuto qualche poliziotto di origini straniere?
Il cambio d’orizzonte in polizia è una trasformazione in atto. Facendo ricerche sul campo ho conosciuto poliziotti di seconda generazione, ma la storia è totalmente inventata.

Molti degli elementi centrali nel corto tornano nel lungo. Tra di essi immagino anche il tuo interesse per il cinema di genere.
Sì, mi piacciono i film di genere, d’azione, gli action drama diciamo così. Mi piace costruire un racconto dinamico con elementi del genere: di qui è venuta l’idea d’inserire nella storia la polizia, evitando però di finire nelle trappole ideologiche o in quelle politiche.

Quali sono gli elementi che t’interessano di più del cinema di genere e che cosa t’interessa fare usando anche solo alcuni di questi elementi? Quali sono i tuoi riferimenti?
I film che cito spesso sono Tropa de elite, Sicario, A prayer before dawn, un film francese del 2017 sulle carceri tailandesi che è andato a Cannes (ndr. regia di J.S. Sauvaire). Mi piace e m’interessa un cinema di genere che intrattenga e diverta ma che inviti e consenta un ragionamento, che racconti la società attuale con i suoi problemi, un cinema di genere col cervello, che racconti in modo crudo, d’impatto, di scontro. Questo genere di cinema mi piace prima di tutto sul piano visivo ma è tutto connesso, m’interessano anche le strutture del racconto.

Sentendoti parlare mi viene in mente Audiard.
Audiard fa questo, certo. L’idea di far arrivare il tuo racconto a una platea la più vasta possibile, alle masse, credo, sia uno scopo del tutto rispettabile. Se lavori per una cerchia ristretta di persone, la tua idea rischia di diventare un po’ limitante. La mia aspirazione in fondo è arrivare alle masse senza fare propaganda.

Hai mai pensato di lavorare a un film sulla Bielorussia o su quella parte d’Europa?
Per adesso mi piacerebbe analizzare l’Italia, farlo in un modo nel quale nessuno l’ha mai fatto prima. Certo che mi piacerebbe lavorare su quella parte d’Europa, dal mio punto di vista, ma per lavorare su una cosa bisogna studiarla parecchio e analizzarla in modo chirurgico. Le questioni della Bielorussia le affronterei comunque con un background italiano, la mia formazione è avvenuta in Italia, così come ho raccontato Il legionario con elementi che provengono dal mio vissuto bielorusso.

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