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Hitler alle prese con le cuffie dell’Ipod

Narratori tedeschi Romanzo in formadi parodia, «Lui è tornato» di Timur Vermes racconta il risveglio del Führer nella Germania contemporanea

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 7 luglio 2013

Il 30 agosto del 2011 un uomo in divisa nazista si sveglia sulla panchina di un parco berlinese. Se non fosse per l’abito di pessimo gusto scelto dal singolare personaggio, nulla turberebbe la giornata in cui si apre Lui è tornato, romanzo del tedesco Timur Vermes (trad. it. di Francesca Gabelli, Bompiani, pp. 18,50). Il lettore non può non provare un’immediata simpatia per questo singolare individuo sulla sessantina, molto più somigliante a un clochard che a un gerarca nazista. L’uomo decisamente retrò non ha una sua dimora e neppure un soldo in tasca, la sua divisa è lacera e puzza di benzina, e la sua percezione del mondo circostante è completamente straniata, tanto che crede di essere nel 1945. Ma nella simpatia spontanea che l’oscuro personaggio suscita si agita qualcosa di inquietante, non foss’altro che per i suoi farfugliamenti sul popolo tedesco e sulla seconda guerra mondiale, che ne rivelano presto l’identità.
La copertina del romanzo fornisce d’altronde già un indizio per comprendere chi sia il «lui» di cui si racconta: su sfondo bianco campeggia la silhouette nera di una capigliatura inconfondibile sotto la quale, incolonnato a formare un paio di baffetti altrettanto inconfondibili, si staglia il titolo del libro. Come se non bastasse, il titolo del prologo – «Risveglio in Germania» – e la numerazione dei trentasei capitoli del romanzo sono in carattere gotico. Al lettore tedesco è stato, inoltre, fornito un ulteriore minimo indizio per identificare il protagonista del romanzo: l’indizio è nascosto nel prezzo: 19,33 euro.
Non è dunque necessario avventurarsi molto in là nella lettura per comprendere che il romanzo racconta il risveglio nella Germania del 2011 di Adolf Hitler, divenuto cancelliere nel 1933 e – dobbiamo dedurre – «addormentatosi» nel giardino della cancelleria del Reich nel 1945. Dopo un sonno durato sessantasei anni, il Führer si ridesta in una Berlino che gli è al contempo estranea e familiare e nella quale si muove cogliendo appieno le contraddizioni della contemporaneità tedesca e le sue continuità con il passato. Tra le pagine di questo romanzo, che Oltralpe ha venduto seicentomila copie e in Italia è stato il titolo più venduto all’ultimo Salone del libro di Torino, la Germania attuale appare a Hitler come un luogo nel quale poter occupare nuovamente la posizione del Führer, risvegliando nei tedeschi la mai del tutto sopita inclinazione al nazionalsocialismo.
Narrato in prima persona e frutto della acribia storica di Vermes e delle sue ricerche capillari su Hitler, documentate nelle quasi cinquanta pagine di «Note dell’autore» poste in appendice, Lui è tornato offre una lettura della contemporaneità attraverso gli occhi dell’uomo dal quale è disceso il destino della Germania nel secondo Novecento. L’origine delle grandi cesure della storia recente tedesca – la Seconda guerra mondiale, la divisione e la riunificazione della Germania – è, infatti, da ricondurre all’agire del Führer negli anni del dodicennio nero, di cui Vermes evoca gli eventi salienti, mettendoli in dialogo con il presente attraverso una operazione di scardinamento dell’asse temporale. Hitler assume così i tratti di un vero e proprio revenant pronto a catalizzare l’inquietudine di una contemporaneità gravida di incertezze, sulle quali innestare una nuova ascesa del nazismo.
La determinazione con la quale il redivivo Führer conclude il proprio fanatico progetto politico, quel progetto già enunciato nella Mia battaglia, testo che viene più volte ricordato nel romanzo, nutre la narrazione sin dal suo incipit. Lui è tornato guarda la Germania dei nostri giorni attraverso gli occhi di Hitler in quella stessa forma autobiografica che caratterizza la bibbia del nazismo, il cui tedesco burocratico viene ricalcato dalla lingua impiegata dal protagonista del romanzo. Del tutto convincente, la ricostruzione della retorica del personaggio effettuata da Vermes è modellata sui Monologhi del quartier generale del Führer, grazie ai quali l’autore ha potuto comprendere – come si legge nelle Note in appendice al romanzo – «la logica della… follia», che dall’uomo storico si riversa su quello inventato.
Dotato di un’autodeterminazione e di una consapevolezza di sé incrollabili, l’Hitler di Vermes non esita a riproporre la propria fanatica retorica: lo si vede, per esempio, già fin dall’incipit del romanzo, nei dialoghi con il giornalaio che gli offrirà l’opportunità di trovare riparo nel proprio chiosco, dandogli così modo di informarsi sulla storia tedesca degli ultimi sessant’anni. Da questo suo nuovo quartier generale, Hitler comincia a muovere i propri passi nella Berlino e nella società tedesca della riunificazione, un atto che considera tra «le poche eccellenti menzogne propagandistiche partorite da questa Repubblica», mai abbandonando la prospettiva del fanatismo uncinato.
Strabiliato dalla presenza massiccia degli immigrati turchi in quella che crede essere ancora la capitale del III Reich, il Führer di Vermes suscita nel lettore sentimenti contrastanti: numerosi, infatti, sono i momenti esilaranti, per esempio quello in cui scambia le cuffiette degli Ipod fornitegli dagli studenti con i tappi per preservare le orecchie dallo scoppio delle granate, oppure il passaggio in cui deve utilizzare uno smartphone per la prima volta. Dunque, l’ironia diffusa nel libro trova la sua ovvia origine nella goffaggine di Hitler, ignaro della realtà in cui si è risvegliato, e dunque dei nuovi media e delle nuove tecnologie con cui si trova a confrontarsi. D’altronde, immediata è la comprensione del Führer circa le potenzialtà seduttive intrinseche ai nuovi media, laddove li si voglia usare a fini propagandistici.
Orfano di Goebbels, Hitler può ora avvalersi di quella che chiama «internez», imparando presto a sfruttare anche Youtube, tramite centrale per la diffusione del suo progetto politico: dopo essere stato assunto come imitatore di se stesso per il talk show di una emittente televisiva, i suoi sketch risulteranno fra i più cliccati sul web.
È tramite questi espedienti narrativi che il tragicomico romanzo di Vermes invita dunque a riflettere sullo stato della Germania contemporanea e sul fatto che le condizioni sociali, culturali e politiche che hanno reso possibile l’ascesa di Hitler nel 1933 trovano ancora una loro attualità.
La latenza dell’ideologia nazista nella coscienza collettiva tedesca, che il redivivo Führer sente di poter risvegliare, è stata d’altronde una questione ampiamente dibattuta a partire dal secondo dopoguerra, divenendo la base del processo di elaborazione del passato promossa già da Theodor W. Adorno che, nel 1959, scriveva: «se la tanto menzionata rielaborazione del passato non è fino ad oggi avvenuta, ma si è tramutata nella sua caricatura, il vuoto e freddo oblio, è perché continuano a sussistere le oggettive premesse sociali che generarono il fascismo».
Oltre a rinverdire queste considerazioni, il romanzo di Vermes trova una sua contestualizzazione nel solco dello studio di Alexander e Margarete Mitscherlich, i quali in Germania senza lutto: psicoanalisi del postnazismo del 1967 avevano avanzato la provocatoria tesi della perdurante dipendenza psicologica dei tedeschi dalla figura carismatica di Hitler, il cui spettro si sarebbe aggirato, perciò, nell’inconscio collettivo della Germania successiva al dodicennio nero…. per venire ora riacchiappato nella finzione, tutt’altro che priva si spunti reali, allestita da Timur Vermes e accolta con inquietante favore.

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