Hitchcock, vite donne e film di un puer aeternus
Il libro «Le dodici vite di Alfred Hitchcock» di Edward White, dal Saggiatore
«Nessun altro artista uomo del XX secolo ha dedicato altrettanto tempo e impegno a esplorare lo stile di vita e l’identità femminile. Intrappolato tra sentimenti di ammirazione e risentimento, identificazione e straniamento, tra l’impulso all’adorazione e il desiderio di controllo, Hitchcock aveva una serie di idee complesse e contraddittorie sulle donne e sul suo rapporto con loro. Da un lato se ne circondava, ne cercava l’amicizia e affidava loro responsabilità e opportunità. Dall’altro, fu proprio tramite le donne che rivelò i lati più oscuri e sconcertanti di sé». Nel libro di Edward White, Le dodici vite di Alfred Hitchcock, edito da il Saggiatore nella traduzione di Camilla Pieretti (pp. 430, euro 27,00), l’affermazione è il filo conduttore del più recente volume su un personaggio poliedrico, che impone uno sguardo plurale in grado di fronteggiarne le molteplici, sfuggenti individualità. Azzeccato o meno, il titolo rimanda ai dodici capitoli del libro, altrettante immagini proiettate provocatoriamente sul volto impassibile del protagonista: l’eterno bambino, l’assassino, l’autore, il donnaiolo, il grassone, il dandy, il padre di famiglia, il voyeur, l’intrattenitore, il pioniere, il londinese, l’uomo di Dio. Nell’allestire i dodici ritratti, ognuno da un’angolazione diversa capace di cogliere non solo la figura pubblica e l’aura mitica, ma anche i vari ruoli che, in bilico fra realtà e finzione, ha incarnato, l’arguto quarantunenne collaboratore del Times Literary Supplement prende le distanze dalle biografie più celebri per affidarsi piuttosto all’Alfred Hitchcock Collection di Los Angeles e a tutti gli altri fondi disseminati fra Londra e New York, Boston e Dallas, senza trascurare le testimonianze orali, le lettere, i documenti privati di quanti hanno attraversato in un modo o nell’altro il Pianeta Hitch.
Se i critici amano dire che ripercorrere la carriera del regista è un modo efficace per studiare l’intera storia del cinema – e in realtà i suoi cinquantasei film spaziano fra il muto e il sonoro, il bianco e il nero, il colore e il 3D, l’espressionismo e il film noir, l’epoca d’oro di Hollywood, l’avvento della televisione e i fermenti degli anni Sessanta e Settanta – spesso considerano irrilevante il retroscena di Il labirinto delle passioni (1925), il primo film di produzione anglo-tedesca che firma come regista. La troupe, che da Monaco arriva a Sanremo, è formata da Hitchcock non ancora ventiseienne, il direttore della fotografia Giovanni Ventimiglia, Alma Reville, l’aiuto regista che sposerà soltanto nel dicembre dello stesso anno e gli sarà accanto per tutta la vita con il suo fiuto di montatrice e spesso anche di sceneggiatrice. La ragazza che doveva tuffarsi in mare sta confabulando con uno degli interpreti. «Non può bagnarsi», dice l’attore. «Come facciamo?». «Vuoi dire che si rifiuta di far la parte? Ha paura dell’acqua?», chiede perplesso Hitch. «Non esattamente», risponde l’attore, passando la patata bollente a Ventimiglia, costretto a spiegare all’imbranato neoregista i problemi del ciclo mestruale, suscitando l’imbarazzata confessione: «Non ne sapevo nulla. Sono andato a scuola dai gesuiti e di certe cose non si parlava». L’ignoranza sessuale corrisponde all’immagine dell’aeternus puer, uno dei tratti più caratteristici della sua soggettività. Se l’aneddoto del breve soggiorno in cella nel commissariato di polizia è riportato dappertutto in versioni tanto diverse da indurre il sospetto che sia inventato, per cogliere la centralità della paura nel piccolo Alfred forse è più importante la notorietà che si è conquistata L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, uscito all’inizio del secolo scorso. Soprattutto se si tiene conto del fatto che nella sua disinvolta familiarità con la psicoanalisi, più volte esibita con l’aria da esperto, è convinto che i sogni possono aiutarlo a comprendere il fanciullo interiore annidato nel suo inconscio. Ma il trauma della guerra con i bombardamenti tedeschi che centrano l’East End, il quartiere di Hitchcock, insedia da allora l’ansia che da adulto non lo abbandonerà mai.
Nei suoi film l’omicidio di massa si declina al singolare, insieme al voyeurismo e al senso di colpa, scegliendo come vittime privilegiate le donne, soprattutto bionde. Se le donne vengono massacrate nella doccia, spinte giù da un campanile, fatte a pezzi con un’ascia e sotterrate fra le aiuole, agli uomini non è riservato un trattamento migliore. Nessun luogo è sicuro. Le violenze avvengono in scuole, chiese, bagni, cucine, mulini a vento, motel, persino in una giostra. L’omicidio è al centro di molti titoli della stagione inglese, sin da quello che considera il suo primo vero film d’autore, Il pensionante (1926), che attinge alle sanguinose vicende di Jack lo Squartatore, il clamoroso protagonista della cronaca nera fin de siècle, ambientato, guarda caso, nell’East End. Nella leggenda del serial killer di prostitute, avviata sin dai quotidiani dell’epoca, c’è anche chi lo collega a importanti figure di pittori, confermando senza volerlo la tesi di L’assassinio come una delle belle arti di Thomas De Quincey del 1837, che Hitch conosce e cita in più di un’occasione. Tra le fonti letterarie del primo decennio prevalgono i romanzi polizieschi e di spionaggio, che rifiutano il whodunit, il «chi è stato» di Agatha Christie, a cui sostituisce la suspense, fondata sulla ricerca delle emozioni tipica del cinema.
Se gli episodi di violenza domestica attraggono l’immaginazione del regista, non sarebbe strano scoprire che è d’accordo con George Orwell, per il quale uccidere la propria moglie a calci potrebbe esser considerato il tipico crimine inglese, dove la signorilità borghese nasconde un sottotesto brutale.
La sua stagione migliore è quella americana, quando crea la sua casa di produzione all’interno della Paramount. Se qualcuno gli attribuisce una storia con Joan Harrison, a cui affida le due serie tv, nessuno ha mai esibito prove concrete. L’infatuazione per Ingrid Bergman all’epoca di Il peccato di Lady Considine (1949) inaugura la galleria delle attrici predilette dal maestro. Sul rapporto con Grace Kelly, altra indubbia infatuazione, non occorre insistere perché Ghiaccio Bollente è lei, e cioè la tipologia femminile che lo entusiasma, quella in cui sotto le più algide apparenze si nasconde una sessualità vulcanica. Il teorema Kelly funziona anche all’incontrario, cioè nei maldestri tentativi di sostituirla, prima con Vera Miles, poi con Kim Novak e infine con Tippi Hedren, con ognuna delle quali si ripete il rituale del controllo più assoluto, dal guardaroba alla vita privata.
Il caso clamoroso è quello di Tippi Hedren, con cui il meccanismo – inghiottito dall’Ombra – esplode nella frustrazione per approdare, ahimè, alle molestie sessuali. L’immagine del grassone è quella che l’interessato avrebbe gradito di meno. Anche se il rapporto con il suo peso, di cui era vietato parlare sul set, è più ambivalente. Se dice più volte: «Non sono a mio agio nella mia ciccia», in realtà, fra una dieta e l’altra, sfrutta la sua rotonda silhouette per accentuare la narcisistica affermazione dell’io in una identità estrema. L’ammiratore di Cary Grant, che considera la più elegante incarnazione della mascolinità, non può che detestare la sua stazza sovrabbondante, ma nello stesso tempo la usa come riconoscibile marchio di fabbrica nei piccoli show di apertura di Alfred Hitchcock presenta, la fortunata serie televisiva. Il suo episodio preferito è quello in cui la padrona di casa serve il cosciotto di agnello con cui ha ucciso il marito ai poliziotti che stanno indagando sulla sua scomparsa. Sono innumerevoli i pranzi nella vita di Alma, grande cuoca, e di Alfred, raffinato gourmet, ma nella sua derisoria ambiguità questo è imbattibile come un delitto perfetto.
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