Hollywood, agosto 1962. All’apice della popolarità Alfred Hitchcock, che sta terminando il montaggio degli Uccelli, si sottopone a una chilometrica intervista sulla sua carriera professionale – dopo l’impiego in una compagnia telegrafica di Londra aveva iniziato come sceneggiatore e come scenografo – e sull’analisi cronologica di tutti i suoi film, dall’incompiuto Number Thirteen (1922) e The Lodger (Il pensionante,1926) giù giù fino al recente Psycho. Interlocutore e maieuta è un collega francese di trent’anni più giovane, François Truffaut, già critico di punta dei «Cahiers du Cinéma» – l’agguerrita rivista della Nouvelle Vague che ha contribuito in modo decisivo a riabilitare il regista inglese come autore, contrastando i pregiudizi fomentati dal vistoso successo commerciale.

Truffaut lo ha corteggiato a lungo prima di convincerlo, infine ha concordato una scaletta degli argomenti da affrontare per ogni film esaminato: soggetto, sceneggiatura, attori, eventuali problemi di regia, risposta del pubblico. La conversazione, suddivisa in sedute quotidiane interrotte solo dai pasti (ma anche fuori onda il cinema spadroneggia), viene registrata negli uffici di Hitchcock alla Universal. Possiamo coglierne l’eccitazione osservando i vibranti scatti di Philippe Halsman, il fotografo dei salti. Talvolta compare al tavolo una terza figura: è Helen Scott, un’americana educata in Francia e amica di Truffaut, ingaggiata come interprete ed editor.

La laboriosa trascrizione dell’intervista, integrata da ulteriori incontri per parlare dei film girati dopo quell’estate, darà vita al «più divertente e appassionante libro di cinema che sia mai stato scritto». La prima edizione esce in Francia alla fine del 1967 e arriva fino a Torn Curtain (Il sipario strappato); quella definitiva – con una nuova prefazione e un ultimo, malinconico capitolo – nel 1983: ma Hitchcock nel frattempo è morto e di lì a poco Truffaut lo raggiungerà. C’è anche la storia italiana del libro, meritevole di essere raccontata ora che il Saggiatore lo riedita in un’ambiziosa versione «in quarto» (Il cinema secondo Hitchcock, pp. 256, € 49,00), che accanto al consueto apparato di illustrazioni b/n propone nuove immagini a colori: la maggior parte è costituita in verità dalle locandine dei film (alle quali fu dedicata una mostra a Madonna di Campiglio nel 2000), che c’entrano poco con i temi e il nastro della conversazione.

Non appena ho avuto tra le mani questo Hitchcock-Truffaut deluxe, ho allineato sul tavolo tutte le versioni italiane pubblicate – compresa quella gialla dell’Unità –, più una francese. Il progressivo ingrandirsi del formato fa pensare alle dimensioni delle automobili di oggi rispetto agli anni sessanta e settanta: lievitate.

Io lo lessi la prima volta nel 1985 dopo aver captato casualmente una battuta nella biblioteca di latino («è un libro dal quale si imparano molte cose…») e così, mosso da curiosità come il Lucio di Apuleio, divenni presto un adepto. Anzi, la rapinosa lettura avrebbe innescato una tardiva iniziazione al cinema, perché nonostante i cineforum studenteschi non ero mai diventato un mangiatore di film alla Enzo Ungari; e fu un’iniziazione squisitamente formale, linguistica. Qualcosa del genere mi era accaduto dopo aver letto la Morfologia di Propp: una specie di choc cognitivo che avrebbe modificato l’atteggiamento mentale verso qualsivoglia testo fiabesco, anche retroattivamente (i Grimm addolciti delle Fiabe sonore).

Da allora Il cinema secondo Hitchcock ha punteggiato le stagioni della vita come certi romanzi dell’età verde, ai quali si ritorna per cercare il proprio io perduto. Certo, qui domina la natura ‘secondaria’ del libro, che può essere riletto anche per singoli capitoli, sùbito dopo aver visto in tv per la decima volta Intrigo internazionale o La finestra sul cortile, con le scene ancora stampate sugli occhi. A portarlo in Italia e alla nostra attenzione era stata Pratiche Editrice, fondata a Parma a metà degli anni settanta da un industriale poliglotta (Alberto Guareschi) insieme ad alcuni intraprendenti giovani intellettuali. Dopo alterne fortune Pratiche sarebbe stata infine acquistata dal Saggiatore, ma qui interessa ricordare che nel suo primo decennio di vita essa si distinse soprattutto per una collana di linguistica, semiologia e critica letteraria, «Le forme del discorso», inventata da un Mario Lavagetto non ancora quarantenne – che anche in questo calcava con ogni evidenza le orme del maestro, Giacomo Debenedetti, influente consigliere di Alberto Mondadori («Le Silerchie»). Lavagetto, di poco più grande di Bernardo Bertolucci col quale si era imparentato, insegnava teoria della letteratura a Bologna. Erano gli anni del movimento studentesco, e proprio a due studenti che a Parma animavano un collettivo di cinema – Giuseppe Ferrari e Francesco Pititto – fu affidata la traduzione del libro di Truffaut (nella squadra c’era anche Susanna Boschi, giovanissima responsabile editoriale).

«Le forme del discorso», dunque: volumetti in ottavo piccolo dalla copertina bianca, dove era riportato l’incipit del libro, a scopo grafico. Il primo titolo della collana fu Rizoma di Deleuze e Guattari; il sesto – sùbito dopo Semiologia Lessico Leggibilità del testo narrativo di Philippe Hamon (e prima di un saggio di Šklovskij su Guerra e Pace) – appunto Il cinema secondo Hitchcock di Truffaut (1978): che si offriva perciò alla nostra attenzione con un vestito da ‘teoria delle forme’, come si diceva allora, e anche la sobria divisa sembrava catalogarlo come libro di studio; oltretutto quella prima edizione era del tutto priva di immagini, a causa dei costi. La traduzione ha resistito sino ad oggi – portandosi dietro anche qualche fastidioso errore di stampa (tra quelli non emendati ce n’è uno vistoso a p. 255) –, e adesso i nomi dei due ex-studenti cinefili sono finiti in copertina, sotto la foto di Hitchcock circondato dai corvi; ma nel volume non troviamo alcuna traccia della (decisiva) storia parmigiana cui si è accennato.

Detto dell’aspetto, e del contesto in cui lo si leggeva quarant’anni fa, l’Hitchcock-Truffaut di oggi si presenta come un elegante coffee table book, anzitutto da sfogliare con bramosia. Alcune sequenze dei fotogrammi rimontate occupano un’intera pagina, addirittura due la doccia di Psycho. Le mie preferite (s’intende su carta) restano: la scena del pasto in stile espressionista tedesco di Sabotage (1936), in cui l’alternanza del coltello e degli occhi di Sylvia Sydney trasmette la crescente ossessione che culminerà nell’omicidio; la lotta sulla Statua della Libertà in Saboteur (Sabotatori, 1942), con il primo piano della manica della giacca che si sta scucendo; il concerto all’Albert Hall in L’uomo che sapeva troppo (1956), formidabile scena di suspense su musica di Bernard Herrmann, «in cui noi attendiamo con angoscia il momento in cui il suonatore di piatti, impassibile, userà il suo strumento»: l’unico colpo di piatti previsto, infatti, è il segnale per sparare all’ambasciatore in sala. Hitchcock svela la fonte di quest’idea: una serie di vignette sulla giornata di un omino, che si alza, si lava, si veste, sale sull’autobus e arriva all’Albert Hall per unirsi all’orchestra. Al segnale del direttore, soffia una sola nota nel suo flauto; quindi ripone lo strumento, lascia la sala, riprende il bus, arriva a casa, cena e va a dormire.

L’estrema precisione con cui Hitchcock ci ‘fa vedere’ i disegni del raccontino (qui ne ho fatto solo la sintesi) svela l’economia spirituale del suo umorismo, che nei meandri dell’intervista talvolta sorprende anche l’ammirato – e già edotto – interlocutore. Quello di Hitchcock è un Witz sempre in agguato, capace di neutralizzare i cliché coi quali si è soliti descrivere la realtà delle cose, e alla fine questo libro – nato dopotutto da un set analitico a puntate – rivela una qualche parentela con i casi clinici trascritti da Freud (chissà se questo aspetto avrà intrigato Lavagetto: peccato non averglielo mai chiesto…). Non è certo l’unico effetto di lettura offertoci. La sintonia linguistica dei due cineasti, per esempio: sprigiona un’euforia così contagiosa, che invita a prendere parte al vero tema dei loro smontaggi, la stilizzazione. Come stilizzare la vita, potremmo dire. Così un testo nato per raccontare il cinema di Hitchcock può trasformarsi a poco a poco in una specie di trattato: in che modo rendere astratto (cioè conoscibile) il nostro vissuto maneggiandone soprattutto il lato più imbarazzante, la morte? Il primo lettore-adepto è lo stesso Truffaut, che conosce a memoria quasi tutti i film del regista inglese e perciò sa quali sono i momenti-chiave per sollecitare un commento tecnico a questo drastico processo.

Quanto più risultano disarmanti, nella loro geometrica semplicità, le soluzioni visive analizzate, tanto più il voltaggio del testo aumenta. Impossibile darne qui un’idea, mi limiterò a qualche scampolo cominciando da pellicole meno conosciute. Il primo estratto concerne un film appunto minore ma ricco di idee, girato con attori secondari dopo il successo di Rebecca: Foreign Correspondent (Il prigioniero di Amsterdam, 1940). È il classico tema dell’innocente coinvolto in una serie di disavventure. FT: «È vero che il suo punto di partenza è stata la scena dei mulini, l’idea di un mulino le cui pale avrebbero girato in senso contrario a quello del vento, inviando così un messaggio segreto a un aereo?». AH: «Sì, siamo partiti da questa scena dei mulini e anche da quella dell’assassino che scappa tra gli ombrelli… Eravamo in Olanda, dunque mulini e ombrelli. Se avessi girato il film a colori, avrei utilizzato un’idea che desidero realizzare da tantissimo tempo: un assassinio, in un campo di tulipani…»; quindi si mette a descrivere la scena come se l’avesse girata, inquadratura per inquadratura. Secondo brano. FT: «Credo che lei faccia sempre dei film con una situazione forte e L’altro uomo [Strangers on a Train, 1951, tratto da un romanzo di Patricia Highsmith] assomiglia decisamente a un grafico. A questo livello la stilizzazione, che diventa inebriante per l’occhio e per lo spirito, affascina anche la gran massa del pubblico». AH: «Sì ero molto contento della forma generale del film». Quest’altra invece è una delle più eleganti spiegazioni di cos’è un’inquadratura. AH: «Come lei sa, io non guardo mai nel mirino, ma l’operatore sa benissimo che non voglio dell’aria o dello spazio intorno ai personaggi e che bisogna riprodurre fedelmente i disegni che abbiamo fatto. (…) Per ottenere l’immagine finale, possiamo prendere un paio di forbici e tagliare lo scarto, lo spazio inutile».

Il capitolo sugli Uccelli (1963), aperto da una fulminante ‘recensione’ di Truffaut: «Ha avuto ragione lei a non motivare l’azione aggressiva degli uccelli. Il film è chiaramente una costruzione intellettuale, una fantasia», è una sorta di lezione sul punto di vista, assai più divertente – sia detto con rispetto – dei sacri testi di narratologia o teoria del cinema; meglio, una lezione su come amministrare la diegesi mediante il posizionamento della macchina da presa. AH: «Bisogna lasciare il punto di vista soggettivo per quello oggettivo, cioè far vedere il gabbiano prima che colpisca la ragazza, affinché il pubblico sia cosciente…». E a proposito dei ‘primi piani’: «La dimensione dell’immagine è molto importante per l’emozione, soprattutto quando l’immagine viene usata per creare l’identificazione con il pubblico…».

Il soggetto degli Uccelli è tratto, com’è noto, da un racconto di Daphne du Maurier. Come trasformare dei testi letterari in ‘quadri’ alla Hitchcock? È stato per lui un autentico rovello: «Il vecchio Rouault si è accontentato di dipingere dei clowns, qualche donna, il Cristo sulla croce, e questo ha costituito tutta l’opera della sua vita … ma come può un cineasta continuare a dipingere lo stesso quadro?» afferma antifrasticamente. Perspicace questa spiegazione avanzata da Truffaut, che non smette mai i panni di enfant prodige della critica: «Credo, signor Hitchcock, che il suo procedimento sia antiletterario, strettamente ed esclusivamente cinematografico, e che subisca l’attrazione del vuoto! La sala cinematografica è vuota, lei la vuole riempire; lo schermo è vuoto, lei vuole riempirlo. Non parte dal contenuto, ma dal contenitore. Per lei, un film è un recipiente che bisogna riempire di idee cinematografiche o, come lei dice spesso, “caricare di emozione”». Siamo verso la fine dell’intervista. Il cineasta che Selznick definiva incomprensibile come un rebus (AH: «non facevo altro che girare dei piccolissimi pezzi di film che solo io potevo mettere insieme») e che ha speso tutta la vita a inseguire l’understatement e la stilizzazione «da cartone animato» (come chiosa acutamente Truffaut), si è rivelato anche a parole un vigoroso fabbricatore di immagini. Le cinéma selon Alfred Hitchcock meriterebbe di essere citato nei trattati sull’«ipotiposi».