L’inaspettato elogio di Snoop Dogg a Donald Trump ha provocato un’ondata di shock all’interno dell’intero panorama musicale statunitense. Dopo anni di feroci critiche rivolte all’ex presidente, il rapper di Long Beach ha colto tutti di sorpresa esprimendo pubblicamente rispetto e gratitudine nei suoi confronti, improvvisa inversione di rotta in netto contrasto con le posizioni espresse in passato. La sua notorietà per le provocazioni anti-Trump – come la copertina dell’album Make America Crip Again in cui Snoop è in piedi davanti al «cadavere» del presidente o il video musicale nel quale spara a un clown vestito da Trump – rende ancora più stupefacenti le recenti esternazioni. Ma Snoop Dogg non è l’unico. Anche il rapper YG, noto per il suo inno F*** Donald Trump, ha drasticamente attenuato la propria posizione nei confronti dell’ex conduttore di The Apprentice, citando il Programma di Protezione dei Salari (PPP) come motivo per cui «i neri lo hanno perdonato», dopo un periodo di scetticismo.
Snoop e YG sono solo gli ultimi rapper a salire sul carro di Trump. Kanye West lo sostiene apertamente da tempo, mentre Lil Wayne e Kodak Black gli hanno espresso il loro sostegno dopo aver ricevuto la grazia durante l’ultimo giorno del suo mandato. Nel 2020, Trump aveva persino portato un entusiasta Lil Pump a un raduno Maga in Michigan (presentandolo come «Lil Pimp»), mentre Da Baby ha appoggiato la sua candidatura nel 2020. La lista continua e include artisti come Sexyy Red, Waka Floka Flame, Danny the Butcher e molti altri. Tra questi c’è anche Ice Cube, diventato il nuovo media darling della destra conservatrice per le sue posizioni anti-vax e omofobe.

FENOMENO GLOBALE
Il legame tra cultura hip hop e politica americana non è nato con l’era Trump, ma affonda le sue radici in un passato di attivismo e impegno sociale. Da decenni, l’hip hop ha dato voce alle comunità marginalizzate, affrontando temi quali la disuguaglianza razziale, la brutalità poliziesca e le disparità socioeconomiche. Come sottolinea il critico culturale Bakari Kitwana: «L’hip hop ha raggiunto una dimensione che va ben oltre il panorama musicale, diventando un vero e proprio fenomeno globale. Con una storia cinquantennale che ha coinvolto artisti di ogni età e un pubblico che abbraccia diverse generazioni, l’hip hop si configura sempre di più come strumento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, specialmente in contesti politici».
Proprio per il carattere trasversale e la capacità di influenzare le nuove generazioni, l’hip hop è diventato anche un potente strumento di propaganda politica. E il nuovo documentario Hip Hop and the White House, diretto dal giornalista e scrittore Jesse Washington, reperibile in streaming su Hulu, si avventura proprio in un viaggio che esplora la relazione complessa tra l’hip hop e la corsa alle elezioni presidenziali. Sin dai suoi albori negli anni Settanta, l’hip hop ha subito l’influenza della figura presidenziale, esercitando a sua volta un impatto significativo su di essa. Come sottolinea Kitwana, voce fondamentale del documentario, «questa cultura è intrinsecamente politica sin dalla sua nascita, a causa del contesto socioeconomico in cui è sorta».
Nato tra le difficoltà economiche e il degrado urbano di New York, l’hip hop ha trovato voce nelle rime di artisti come Grandmaster Flash and the Furious Five (The Message, 1982) e KRS-One, che definì Ronald Reagan «il padre del crack». L’epidemia di crack degli anni Ottanta divenne così indissolubilmente legata alla presidenza Reagan, evidenziando il profondo impatto delle politiche pubbliche sulla comunità afroamericana. Il documentario prosegue analizzando le presidenze successive, utilizzando ogni figura presidenziale come punto di riferimento per la sua narrazione. Si passa da Jimmy Carter che invita i New York City Breakers al ballo inaugurale per la rielezione di Reagan nel 1985, a Bill Clinton che nel 1993 ingaggia LL Cool J per il proprio. Clinton, pur riconosciuto come il primo politico nazionale ad aver compreso il potenziale del voto afroamericano, viene anche criticato per la sua demonizzazione dell’attivista hip hop Sister Souljah. Il documentario salta gli eventi dell’11 settembre, ma approfondisce la presidenza di George W. Bush, concentrandosi sulla risposta inadeguata del governo federale all’uragano Katrina nel 2005 e sulla dissonanza tra i due principali slogan dell’epoca. Mentre Bush elogiava il direttore della Fema con un «Brownie, stai facendo un lavoro fantastico», Kanye West, durante un evento Telethon, attaccava il presidente affermando che non si curava dei neri. Common sottolinea: «George Bush aveva bisogno di sentire quelle parole. Era l’ennesimo segno di come l’hip hop avesse acquisito potere».

UNA PROMESSA
L’elezione di Barack Obama ha rappresentato un momento di svolta per l’America nera, simboleggiando la promessa di cambiamento e rappresentanza ai massimi livelli del potere. Ed è con il primo presidente afroamericano che quella relazione cambia in modo profondo, passando dalla critica alla cooptazione. Il contrasto tra le due ere presidenziali emerge con forza attraverso l’immagine di un dj che suona Ante Up dei Mop, durante una festa alla Casa Bianca o quella di Ye che indossa un cappellino Maga rosso e abbraccia Trump nell’Ufficio Ovale.
Nell’arco di un’ora, il documentario ci conduce in un viaggio affascinante e spesso conflittuale, esplorando come il rap abbia influenzato e, a sua volta, sia stato influenzato dalle scelte dei presidenti degli Stati Uniti. Uno dei momenti più interessanti è la riflessione di Common sulla sua visita alla Casa Bianca con altri rapper per discutere dell’iniziativa «My Brother’s Keeper» con l’amministrazione Obama. Il rapper di Chicago descrive l’esperienza come un passaggio simbolico «dal retrocucina a un posto a tavola», sottolineando l’importanza di un dialogo diretto tra il potere e le comunità afroamericane. L’atmosfera di speranza viene però smorzata dalla cruda realtà espressa da Daddy-O degli Stetsasonic: «Un sacco di gente è andata alla Casa Bianca con Obama. Non sappiamo cosa sia successo. Abbiamo visto solo foto, nessun impegno per la comunità nera. Questo doveva essere il nostro uomo». Le parole di Daddy-O riassumono il conflitto al centro del documentario: da un lato, la speranza di un cambiamento positivo incarnata da figure come Obama e Common; dall’altro, la consapevolezza che il potere spesso rimane inaccessibile e opaco, lasciando le comunità – già marginalizzate – ancor più ai margini.
Nel 2019, il rapper e produttore Erick Sermon ha provato a immaginare un governo in chiave hip hop, con Dr. Dre nel ruolo di vicepresidente, Jay-Z in quello di segretario di Stato, i Public Enemy alla sicurezza interna e Snoop Dogg, con un pizzico di ironia, all’Agricoltura. Con il brano Cabinet il presidente Sermon dipinge un ritratto ironico e provocatorio di un rapper che diventa «Commander in Chief»; l’idea, benché ironica, stimola una riflessione sul ruolo che l’hip hop può giocare nel plasmare il futuro.
«L’hip hop avrà sicuramente un ruolo importante anche nelle elezioni del 2024 – conclude Kitwana -. Sempre più politici cercano di entrare in contatto l’audience hip hop. Tra questi troviamo Biden che dialoga con Cardi B (tramite Elle Magazine), Kanye West e Waka Floka che incontrano Trump, così come la recente polemica scoppiata tra Eminem e il candidato presidenziale repubblicano Vivek Ramaswamy». Il botta e risposta tra il rapper e il candidato sottolinea il potere dell’hip hop nel suscitare dibattito e mettere in luce questioni politiche scottanti. Questo scambio evidenzia come l’hip hop non solo denunci la realtà sociale, ma abbia anche la forza di stimolare il cambiamento. Hip Hop & The White House ci invita a riflettere sul ruolo di questa cultura nell’arena politica, ponendola come un’importante forza trainante del discorso sociale contemporaneo.