Hilma af Klint, pitture chiaroveggenti
Quando Ananda, uno degli Alti maestri e Spirito guida (ma poteva essere anche Amaliel o Esther o Georg o Clemens) le dice «il mondo ti tiene in catene; tu mettile da parte», lei ha già in qualche modo intuito che l’educazione e la formazione sinora ricevute – quelle classiche di una ragazza della Stoccolma alto borghese di fine ottocento, figlia di un matematico e nipote di un cartografo navale, dedita alla ritrattistica e al paesaggio (generi peraltro perfettamente realizzati) con le estati passate nelle proprietà di famiglia ai laghi fuori città – stanno per esplodere. E proprio alla vita e alle opere di Hilma af Klint (1862 – 1944) è dedicata la grande mostra in corso al museo Guggenheim di Bilbao (a cura di Tracey R. Bashkoff e Lucia Agirre, visitabile fino al 2 febbraio 2025).
LA SUA È UNA STORIA essenzialmente di donne: alla Reale accademia di belle arti di Stoccolma conosce Anna Cassel e dopo di lei altre tre con le quali forma il gruppo De Fem (Le Cinque). Si concentrano tutte insieme sul contatto con l’ultraterreno seguendo un protocollo preciso e scientifico: ci si incontra, si prega, si leggono i testi sacri, si cantano inni, si entra in stato di trance comunicando con gli Alti maestri e lasciando che la mano trascriva liberamente disegni, infine si redigono rapporti esatti e circostanziati di quanto accaduto tenendo nota dei messaggi che sono arrivati.
Nella prima sala è esposto un piccolo disegno da taccuino con le cinque sedute di spalle, piccole lungo il margine basso del foglio, ciascuna con una coroncina di fiori – le svedesissime blomsterkrans di Midsommer – al centro un altare con una croce con, a destra e a sinistra, di nuovo loro che remano su una canoa in direzioni opposte. Un’immagine enigmatica. I disegni automatici che escono dallo stato di trance sono quelli che liberano la mano e spezzano le catene dell’educazione conformista, delle regole patriarcali presenti anche nel mondo dell’arte, del rigido e perfetto realismo di Hilma nel dipingere paesaggi e ritratti. Lei dunque, finalmente, disimpara.
S’immerse nello spiritismo, nel rosacrucianesimo e nella teosofia seguendo la fondatrice Helena Blavatsky
E DA QUI IN POI è per af Klint tutta un’immersione: nello spiritismo, nel rosacrucianesimo e nella teosofia con le idee della fondatrice Helena Blavatsky, sostenitrice dell’unità basica e della divina singolarità perdute nel momento della creazione. Lo spirito guida contatta Hilma af Klint, lei inizia una dieta vegetariana purificante, si veste di nero, fa rituali per ricevere i messaggi in vario modo; sempre a lei – e sono Ananda e Georg a chiederlo – viene chiesto di pensare a un Tempio e alla enorme mole di opere a esso destinate. Accetta l’incarico degli Alti maestri e il 7 novembre 1906 inizia a lavorare, furiosamente, alla pittura «astrale» dei cosiddetti «Dipinti per il Tempio». Saranno alla fine centonovantadue opere, sempre divise in serie lunghe, numerate e classificate.
Rudolf Steiner le vedrà nel 1908 – perché lei glielo chiede – e rimarrà (pare) scettico e per niente entusiasta. È in quel momento che Hilma si persuade di essere portatrice di un’arte che ancora, dai suoi contemporanei e nella sua epoca, non può essere capita. Chaos primordiale è la prima di tante: ventisei tavole ancora di piccole dimensioni in cui si svela un mondo fatto di forme archetipiche, naturali e astratte, micro e macro, e di spirali, tante e di tutte le dimensioni, linee spezzate e onde non indifferenti alle scoperte della scienza di quegli anni (spettroscopio, raggi x, particelle subatomiche, radioattività) ma poi anche conchiglie, protozoi microscopici come la Radiolaria, pianeti, lettere, combinazioni, segni, diagrammi, cellule mitocondriali, punti luccicanti nello spazio, piccoli gorghi gialli che sprofondano nel blu. Insomma, spesso anche forme di «visualizzazione chiaroveggente» di elementi scientifici.
Le serie per i «Dipinti per il Tempio» si susseguono senza sosta. Nei «Grandi dipinti» di figure, maschile e femminile si fondono pian piano fino ad essere un unico elemento alla cui base stanno due enigmatici reni/polmoni, forse memoria di un albo illustrato di anatomia e chirurgia equina, eseguito in gioventù. Arrivano poi, nel 1907, I Dieci più grandi, enormi tele a tempera con le età dell’uomo.
LONTANI PARENTI dei grandi e semplici bonader svedesi, sorta di arazzi appesi nelle case – uno è sulla parete di fondo nello studio di Karl Larsson coevo di Hilma lontanissimo eppur vicino – hanno una luce nordica e, nelle dimensioni enormi, fanno pensare ai murali di Puvis de Chavannes o alle superfici colorate e giapponesizzanti di alcuni Nabis.
Del tempio famoso (mai realizzato) abbiamo schizzi che af Klint fece, in anni successivi, su alcuni dei suoi preziosi taccuini: lo aveva pensato tondo con una struttura elicoidale, quindi ascendente e discendente, con molti piani. Idea simile l’avrebbe avuta di lì a poco Hilla Rebey che, per le opere di Solomon R. Guggenheim a New York, avrebbe pensato a una struttura analoga commissionata poi a Frank Loyd Wright (ma Hilma aveva anche in mente una piccola chiesa del XIII secolo nell’isola di Munso sul lago Malaren e il Goetheanum di Steiner a Dornach).
STRAORDINARI sono poi tutti i gruppi successivi. Una delle tavole di Evoluzione, del 1908, ha una incredibile coincidenza con Systema Munditotius, il primo mandala disegnato da Carl Gustav Jung nel 1916 così come anche la forma ovale dell’Albero della conoscenza (1913) – con una calotta che sembra un guscio di mare e all’interno una sorta di spina dorsale – si avvicina molto a una delle tavole del Libro Rosso.
Non era d’altronde un caso che nelle biblioteche di entrambi fossero presenti, fra i tanti, Nietzsche e Paracelsius, Meister Eckhart e Steiner. Passando per i coloratissimi e dorati cubi prismatici coi quali si chiude la serie Il Cigno – e l’inizio è con due cigni che si specchiano l’uno nell’altro – si arriva alle tavole botaniche che Briony Fer, nel breve e illuminante saggio in catalogo, definisce «atomiche».
Rudolf Steiner vide nel 1908 i suoi «dipinti astrali» per il Tempio (poi mai realizzato) e rimase scettico: lei vi lesse il segnale che quell’arte non potesse essere capita dai contemporanei
Hilma af Klint trentenne, seduta su una roccia nella foresta dell’isola di Adelsö, prende nota di licheni e muschi che la circondano perché la sua chiesa è la terra e lei crede nella conoscenza che la terra produce. Sono gli appunti che diverranno, negli anni venti, meravigliose tavole nelle quali una pianta o fiore, perfettamente disegnati e colorati secondo la tradizione classicamente scientifica degli erbari, hanno accanto, in basso, un quadrato, un diagramma, un «ipercubo» in cui sono presenti le loro principali caratteristiche «atomiche».
L’artista riesce a mettere, sotto forma di diagramma – e infatti per Briony Fer lei è «Hilma af Klint, Diagrammer» – le strutture immaginarie e i processi astratti sottostanti il regno della natura: metodo figurativo e diagrammatico vanno di pari passo in una tassonomia trascendentale del cosmo in cui Linneo entra a far parte di un repertorio grafico in continua evoluzione.
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