Gli Stati uniti sono con le spalle al muro. A gettare benzina sul fuoco del già accesissimo dibattito che negli Usa circonda l’infinita questione irachena, ci hanno pensato ieri i repubblicani che avrebbero voluto un intervento militare con tutti i crismi in Iraq. Il senatore John McCain ha parlato di risposta americana inefficace. «L’Isil (Stato islamico dell’Iraq e del Levante, ndr) ci vuole distruggere», ha denunciato McCain, sottolineando che a suo avviso gli Stati uniti dovrebbero attaccare non solo l’Iraq ma anche la Siria.

Ad alimentare le polemiche ha pensato poi l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton. «I ribelli siriani andavano armati: non farlo è stato un errore che ha contribuito all’ascesa dei militanti islamici in Iraq», ha assicurato Clinton. Eppure, chi negli Usa vorrebbe che i raid mirati in Iraq si estendessero alla Siria dimentica troppo facilmente i milioni di dollari ed armamenti inviati da Stati uniti, Francia e Gran Bretagna in Siria che dal 2012 hanno finan–ziato e armato anche i jihadisti che ora vogliono marciare su Baghdad. Dal canto loro, Unione europea e Lega araba hanno fatto quadrato intorno a Obama. Dopo il sostegno assicurato ai raid Usa da inglesi e francesi, la Lega araba ha appoggiato gli attacchi che vanno avanti dallo scorso venerdì nel Nord dell’Iraq, condannando le violenze dell’Isil.

Tuttavia, iperattivi sono soprattutto i pasdaran e la diplomazia iraniana, che, con lo scoppio della crisi irachena, lo scorso giugno, si sono impegnati attivamente per mettere in sicurezza il confine occidentale con l’Iraq. Le autorità iraniane e statunitensi avevano inizialmente auspicato uno sforzo congiunto, realizzatosi solo in parte, per limitare l’avanzata dei jihadisti dell’Isil.

E così ieri è arrivato il disco verde del Fondo monetario internazionale (Fmi) al taglio dei sussidi, approvato dal governo tecnocrate di Hassan Rohani. Secondo l’Fmi l’inflazione in Iran si è ridotta come risultato degli sforzi di Rohani di ridurre i bonus energetici. Eppure, nonostante venga accordato il sostegno internazionale alle politiche neo-liberali di Rohani e continuino i colloqui per la fine del contenzioso nucleare, il paese non sembra andare avanti nelle riforme politiche promesse dai moderati. Dopo gli arresti di giornalisti e contestatori, è stato ritrovato morto in Turchia, l’attivista iraniano per i diritti umani, Sayed Jamal Hossein.
Eppure, sebbene i raid Usa e l’impegno iraniano «di terra» non siano coordinati, il ruolo di Tehran, sia nel contenimento dell’Isil sia nel frenare gli entusiasmi dei kurdi per la formazione di uno stato indipendente, è decisivo. Tehran ha dispiegato dieci divisioni delle forze paramilitari al Quds al confine con l’Iraq, nella provincia di Kermanshah. Da settimane sta conducendo in territorio iracheno voli di ricognizione e sorveglianza con l’utilizzo di droni e sta fornendo tonnellate di equipaggiamenti e assistenza militare al governo sciita di Nuri al-Maliki. Il generale Qassim Suleimani, a guida delle forze paramilitari al Quds, ha compiuto poi missioni continue in Iraq.

L’impegno iraniano in Iraq non è una novità. La fondazione del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri), in seguito alla caduta del regime dello shah (1979), provocò la dura repressione della componente sciita irachena da parte del partito Baath. Il baathismo si presentò, come il baluardo dell’opposizione alla diffusione della Rivoluzione islamica tra i paesi arabi. Per questo, l’Iraq ottenne il chiaro sostegno degli Stati uniti nella guerra contro l’Iran (1981-1988). Negli anni Novanta, Washington ha promosso una politica di doppio contenimento (dual containment) tra Iran e Iraq. Gli Usa hanno accresciuto il loro controllo nel Golfo persico sostenendo l’Arabia Saudita come guida regionale per isolare l’Iran. Eppure l’attacco Usa all’Iraq del marzo 2003 vide l’Iran giocare un ruolo di «neutralità attiva». L’instabilità in Iraq è sempre stata un problema per la sicurezza iraniana.
E così in Iraq si gioca la carta decisiva del riavvicinamento tra Usa e Iran: l’ultima chance di tenere a freno l’islamismo radicale, per anni finanziato dai sauditi proprio per isolare lo «stato canaglia» ora utilissimo per contenere i jihadisti.