I romanzi di Patricia Highsmith sono una calamita per i registi. Da poco è su Netflix la serie diretta da Steven Zaillian e ispirata al primo volume della quadrilogia con Mr. Ripley, ma prima ci sono stati i film firmati da Hitchcock, Clement, Wenders, Cavani, Minghella, Chabrol, Deville. È come se i personaggi e le storie dell’autrice americana, nata a Forth Worth, in Texas, il 19 gennaio 1921 e morta a Tegna il 4 febbraio 1995, continuassero a scavare negli inconsci. I suoi non sono gialli nel senso tradizionale, a Highsmith non interessano commissari, indagini, inchieste, ma l’estenuante lavoro che il senso di colpa scava dentro l’assassino e tutti sappiamo come il senso di colpa, dalla tragedia greca in poi, sia un dannato persecutore.
Torniamo un attimo ai suoi luoghi di nascita e morte. Il primo nessuno lo può scegliere. Sul secondo si può fare molto di più, fato permettendo. Tegna è una frazione del comune Terre di Pedemonte, nella Svizzera italiana. È un territorio ricco di boschi, acque, valli, villaggi di pietra, vigneti, vicino al Lago Maggiore, a Locarno e al Monte Verità dove tedeschi e svizzeri tedeschi amano venire in vacanza o godersi la pensione. Dopo soggiorni in Inghilterra, Germania, Italia e Francia, Patricia Highsmith scelse di vivere qui e qui ha trascorso gli ultimi 14 anni della sua vita, prima ad Aurigeno, poi a Tegna in una casa da lei molto immaginata e disegnata dall’architetto Tobias Ammann.

CHIUNQUE abbia letto i romanzi di Highsmith, arrivando a Tegna non può non notare la distanza abissale fra le storie che scriveva e il luogo dove aveva scelto di vivere. È come passare da un intrico di ossessioni alla pace di un prato soleggiato, dalla caverna degli incubi alla freschezza di acque cristalline, dalla prigionia dei rimorsi alla serenità del canto degli uccelli.  Come lei stessa dice in un documentario realizzato nel 1982 da Matteo Belinelli, e disponibile su swissinfo.ch, «Non mi piacciono lo sporco e la violenza di New York. Bisogna circondarsi di un ristretto numero di amici, di gente piacevole da frequentare. La cosa che più amo è il silenzio. Scrivere è un modo come un altro per organizzare il caos, dare ordine al disordine»
Dopo la sua morte la casa dove viveva è stata venduta e non è visitabile. Chi l’ha vista dice che assomiglia a quella che aveva immaginato per l’architetto Guy Haines, uno dei protagonisti di Sconosciuti in treno: un piano, il tetto piatto, verso la strada un muro alto con piccole aperture, verso il giardino privato una lunga sequenza di porte finestre da cui entra sempre il sole. L’esterno è protetto da sguardi indiscreti, l’interno è aperto sulla natura, un dentro e un fuori agli antipodi, come una doppia personalità, o un carattere schivo e molto selettivo.

PER UNA SERIE di coincidenze, vivo gran parte dell’anno nelle Terre di Pedemonte, ma vi sono arrivata poco dopo che Highsmith era morta. Sapevo che è sepolta a Tegna, ma non avevo mai cercato la sua tomba finché pochi mesi fa, in una mattina di sole, me ne viene la voglia, così, all’improvviso. Entro nel piccolo cimitero ordinatissimo, perlustro le lapidi a terra, i loculi. Niente. Finché, sull’ultimo muro, quello meno in vista, la vedo. È il settore dove custodiscono le ceneri. Su una pietra grigia, uguale alle altre, c’è scritto solo «Patricia Highsmith 1921- 1995». Dentro un piccolo vaso di ottone ci sono quattro rose rosse, una appassita.
Esco dal cancello, guardo il binario del treno che passa lì accanto, le montagne di fronte, ascolto il silenzio e sento un forte ronzio, poi un colpo deciso alla nuca. Era un cervo volante.

mariangela.mianiti@gmail.com