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Hiam Abbass,«la mia tripla identità»

Hiam Abbass,«la mia tripla identità»la regista Hiam Abbass

Intervista Parla la regista del film «Inheritance» che viene presentato questa sera a Milano nell'ambito di Sguardi Altrove Film Festival

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 marzo 2015

Al confine tra Israele ed il Libano, in guerra tra loro, un’agiata famiglia palestinese si confronta con la sua eredità: quella di un padre che sta morendo come quella più metaforica della propria cultura, anch’essa al confine tra mondi diversi. Inheritance di Hiam Abbass debuttava nel 2012 alle Giornate degli autori veneziane, segnando l’esordio alla regia dell’attrice palestinese nata in Israele che avevamo visto in film come Munich di Spielberg e Babel di Inarritu. Oggi lo possiamo rivedere allo Sguardi Altrove Film Festival di Milano, dove inaugura la sezione Focus: L’identità multiforme, incentrata sulla figura femminile nel Medio-Oriente.
Film corale, Inheritance contempla un gran numero di figure femminili, da chi si attiene strettamente al ruolo di donna tradizionale a chi sfida le regole come la protagonista Hajar, che rifiuta il matrimonio combinato ed è innamorata di un inglese. Dal Medio Oriente al femminile che vediamo allo Sguardi Altrove emerge come problema dominante quello dell’identità, tema cruciale ora che su identità ed appartenenza si gioca la stessa sorte della democrazia israeliana, che il rieletto premier Netanyahu vorrebbe rendere confessionale. E proprio in Inheritance il tema dell’identità ha molti risvolti: da quello appunto del ruolo femminile diviso tra modernità e tradizione a quello dell’appartenenza nazionale di una famiglia palestinese che vive in Galilea. Ma Hiam Abbass rifugge qualsiasi categorizzazione: «Mi riesce molto difficile confrontare me stessa o il mio lavoro con quello di altri. Lo spettatore può trarre le sue conclusioni, ma la mia opera è il frutto di un percorso molto personale che ho intrapreso e per cui mi sono battuta. Perciò è arduo fare paragoni, giungere a delle conclusioni generali su opere femminili o maschili, palestinesi o israeliane: non perché non voglio essere palestinese, o una donna, o una regista e attrice, ma solo perché difendo il mio diritto ad essere un individuo in questo mondo, e non necessariamente un pesce in un mare di persone».

Come pensa che lo sguardo femminile possa essere importante per raccontarci delle storie provenienti dal Medio Oriente?

Onestamente non saprei: non so come distinguere una donna da un uomo, o un’artista femmina da uno maschio. Per me fondamentalmente gli artisti sono una voce nuova che condivide delle storie, dei sogni con l’umanità.

Inheritance è un film sull’identità e sulla difficoltà di trovarne una su molteplici confini. Come definirebbe oggi l’identità palestinese? 

Per me è un’identità multipla, perché dipende da dove si trova ogni singolo palestinese. Certi sono in Israele, ed in base ai loro documenti sono israeliani, ma hanno un cuore, un sangue, palestinese. Altri sono in Cisgiordania, o a Gaza, o esiliati in tutto il mondo. Ogni palestinese è quindi una rappresentazione della propria identità nel modo in cui lui vorrebbe esporla al resto del mondo. Io ad esempio sono una palestinese nata e cresciuta in Israele, ed ora sono francese, e lo sono stata per gli ultimi 25 anni. Per cui vivo la mia identità palestinese come una memoria di ciò con cui sono cresciuta. Ed è per questo che per me era così importante parlare nel mio film dell’essere combattuta tra un paese che ci ha dato una nuova identità e al contempo ha voluto farci dimenticare la nostra, ed una che la mia società sta cercando di conservare attraverso la religione, i riti sociali o anche i ruoli di genere. Con Inheritance ho deciso di dare una voce a qualcuno che decide di non essere d’accordo, che vuole essere differente, che sceglie di rapportarsi alla propria identità nel modo che preferisce, di avere un’indipendenza che le consenta di esistere in quanto individuo in una società molto complessa, politicamente come socialmente.

Perché secondo lei la sinistra israeliana continua ad essere minoritaria, anche nel momento di massimo isolamento di Netanyahu a livello internazionale? 

Mi è difficile parlare di politica: non è la mia vocazione, non è qualcosa con cui mi sento a mio agio. Cerco di esprimere le mie opinioni nei miei lavori artistici, che si tratti di un film di cui sono la regista o di una parte che recito. Penso che politicamente ci troviamo in una situazione problematica in tutto il mondo, che si tratti di Israele, della Francia, della Grecia, dell’Europa tutta o degli Stati Uniti: ci sono molti elementi esteriori che influiscono sulle nostre vite e rendono le cose più complicate e gli esseri umani sempre più stereotipati.
Io do il mio parere e le mie opinioni nel mio lavoro artistico, che si può anche considerare politico nella misura in cui sono una persona che ha gli occhi aperti su ciò che sta accadendo nel mondo.

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