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Hi Shine, l’ultima generazione del reggae

Hi Shine, l’ultima generazione del reggaeHi Shine, la reggae band romana

Incontri/Il raggamuffin secondo le ragazze. Tra opportunità e difficoltà «Il fatto che siamo nove donne sul palco che cantano o suonano strumenti tradizionalmente considerati 'maschili', assume una valenza politica»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 14 agosto 2021

Osservando il campo del reggae italiano in questa fase storica, viene da pensare che i tempi in cui il genere era al suo culmine sono ormai lontani. Per di più, gli ultimi due anni vissuti tra restrizioni e ossessioni, hanno messo a tacere persino gli ultimi baluardi di un campo già in graduale declino. Questo processo di dissoluzione è cominciato via via per le ragioni che cercheremo di analizzare nel corso di questa intervista con una esponente di ultima generazione, la cui presenza impone di tener conto della «variabile di genere» (intesa qui come distinzione tra i sessi) nell’analisi dei gusti e dei consumi culturali per comprendere al meglio la formazione delle appartenenze sotto-culturali. La Kontramina è la cantante e leader dell’unica band femminile (anche se esistono gruppi con leader femminili o sound system formati esclusivamente da donne, cfr Alias del 30 gennaio 2016), che ha tutte le intenzioni di risplendere, come dichiarano nel nome, Hi Shine. Ove il risplendere è da intendersi in senso pasoliniano, il che implica tutta l’autodeterminazione di questo mondo nel lottare, per conquistare in autonomia il proprio posto.«Ho ripreso questo pseudonimo, la Kontramina, da un termine di guerra. Anzi, in realtà è un termine di difesa, secondo cui non sei tu ad attaccare ma se vieni attaccato, chi ti attacca salta in aria prima di raggiungere la tua fortezza. Ha un valore simbolico».
Riunitesi con il nome di Hi Shine nel 2015, queste giovani donne appartengono alla schiera degli ultimi adepti di un campo in prevalenza maschile, introducendo un elemento di novità (l’essere appunto una band formata unicamente da donne) cui attribuiscono una connotazione politica. «La nostra presenza è di per sé politica: il fatto che siamo nove donne sul palco che cantano, oppure che compongono una linea melodica o che suonano strumenti che tradizionalmente vengono considerati “maschili” come il basso, la chitarra, il sassofono, assume una valenza politica. È la dimostrazione che le donne hanno tutte le capacità e la determinazione necessaria per avere un ruolo autonomo rispetto ai colleghi maschi». Da qui, il riferimento alle grandi voci femminili del reggae giamaicano: «Va riconosciuto il merito a donne come le I-Threes (che sostituirono i coristi di Bunny Wailer e Peter Tosh nei Wailers, ndr), che con le loro carriere soliste hanno cominciato a sovvertire un campo dominato da maschi. Le artiste giamaicane di ultima generazione sono dotate di maggiori strumenti di emancipazione perché hanno un grado di istruzione più elevato che si accompagna alla consapevolezza di sé e del proprio valore. Prendiamo Koffee per esempio: lei è giovanissima e scrive testi di grande rottura con il sistema patriarcale. Si presenta con un look molto casual, jeans, sneaker e l’apparecchio ai denti. Non cura la sua immagine, perché non le interessa essere apprezzata per l’aspetto estetico».
Sta tutto lì il discorso femminista, erodere la pratica fondativa dei rapporti di potere e di oppressione. Pretendere che quello che le donne cambieranno, muterà tutto. «Non mi interessa cantare canzoni d’amore, perché intendo prendere la parola su altre questioni – sbotta la Kontramina -. Con questo disco, ci siamo appropriate del raggamuffin anni Novanta che spesso è stato foriero di contenuti sessisti e omofobi, per parlare di autodeterminazione femminile. Ma ho voluto mantenere l’approccio un po’ rude e il linguaggio un po’ slackness per volgerlo dalla nostra parte».
Come succede nella title-track, Love Is Respect: «La donna non è una bambola che ti fa bagnare e poi scompare. Non è un fantasma che si anima sotto le lenzuola. Non è un passatempo con cui giocare finché non ti annoi. Lei non è un bersaglio, lei non è un buco», una sorta di breviario anti-sessista per cattivi ragazzi. «Ma il disco è corredato della traduzione dei testi dal patois giamaicano, perché volevo che il messaggio arrivasse forte e chiaro a tutti».
Rispetto ai padri fondatori, le nuove generazioni di artisti hanno attuato scelte stilistiche, linguistiche e metriche differenti sperimentando altre commistioni musicali e nuovi intrecci linguistici. In questo senso hanno influito molteplici fattori, che vanno dalle competenze linguistiche (una maggiore predisposizione di scrittura verso la lingua madre o in vernacolo dei fondatori cui si contrappone una maggiore conoscenza del patois e/o dell’inglese da parte delle nuove generazioni) ai gusti. (cfr Alias del 30/04/2016).
«Per quanto mi riguarda scrivo in patois giamaicano prima di tutto perché mi piace molto. Sto completando un dottorato in filologia e sono estremamente innamorata dell’India. Il patois giamaicano è una lingua molto influenzata dalla massiccia presenza di indiani emigrati in Giamaica tra la metà e la fine del secolo scorso. Trovo che il patois sia come molte lingue indiane una lingua “vibrazionale”, in grado di far muovere tutto il corpo, per questo amo cantare in questa lingua. In secondo luogo volevamo guardare all’esterno, ad un pubblico internazionale». Si parlava di predisposizioni e di gusti e si osservava che il reggae italiano sia entrato in una fase di declino. «Come Hi Shine facciamo parte dell’ultima generazione del reggae italiano, perché mi sembra di osservare un mutamento dei gusti tra i più giovani. I ragazzi ascoltano altri tipi di musica, sono più orientati verso altre commistioni, e quindi non c’è più il ricambio generazionale. Io ho cominciato a scrivere stornelli romani a quattordici anni e poi a cantare nel circuito dei centri sociali. La cosa che mi ha affascinato del reggae era il fatto che fosse una musica dal basso. Me ne sono innamorata quando nei centri sociali si montavano i sound system e si facevano le serate “open mic” dove poteva cantare chiunque. Era un momento di aggregazione e socializzazione importante. Personalmente sono sempre stata più interessata all’aspetto della militanza».
La band raggruppa donne con un’età che va dai venti ai quarant’anni, quasi tutte diplomate al conservatorio che hanno finito per sposare la visione militante della leader. «All’inizio non era così; loro, al contrario di me che non ho una formazione musicale vera e propria, sono tutte musiciste con una formazione specifica ed erano interessate a suonare. Margherita, una delle nostre coriste, collabora con Maria Pia De Vito, per esempio. Sono contenta che alla fine siano confluite sulla mia visione perché per me è molto importante. Posso pure cantare in un locale perché mi piace cantare, ma l’idea di una progettualità politica insita in un gruppo di donne per me è irrinunciabile».
Traiettorie e prese di posizioni differenti rispetto ai colleghi maschi che derivano dal fatto di essere donne determinate a conquistarsi uno spazio autonomo nel campo, a riappropriarsi della parola, operando innovazioni contenutistiche che introducono nuovi temi che riguardano le donne come nella traccia Bye Bye.
Le donne sono sempre costrette a lottare di più per le posizioni di potere anche a parità di risorse culturali. Ma traiettorie diverse riflettono percezioni diverse. «Noi ci siamo formate in un contesto dove la discriminazione di genere non era contemplata. Non abbiamo perciò dovuto affrontare la questione internamente al contesto del reggae italiano. Mai nessuno ci ha fatto sentire discriminate perché eravamo donne. Ma per contrastare lo stereotipo che se sei donna, sei stupida, o se sei bionda, sei stupida, non abbiamo voluto farci sfuggire l’occasione di intendere la nostra musica come una forma di lotta».
Un altro aspetto che sembra predominante è il radicamento nel contesto socioculturale e geografico locale, che formano le esperienze di vita, coerentemente con le relazioni e le frequentazioni tra loro. «Siamo legate a gruppi della precedente generazione come Radici nel Cemento o Villa Ada Posse. Io canto anche con i Wogiagia, altra band del circuito romano. Degli artisti di ultima generazione, abbiamo collaborato con Raphael e ci piace molto Sista Awa. Ma sinceramente per i nostri riferimenti musicali guardiamo al reggae giamaicano e inglese».

 

LA BIOGRAFIA. DICHIARAZIONE D’INTENTI
La scelta del nome per una band o un artista ha un’importanza simbolica enorme. Un gruppo di donne che decide di chiamarsi Hi Shine ha già dichiarato tutto. Sono in nove e sul modello delle formazioni femminili pionieristiche nate tra le fila del reggae/dub britannico, all’inizio degli anni Ottanta, come le Akabu e le Abacush, hanno deciso di prendersi il posto che volevano, sul palco. L’interesse per il reggae nasce nel circuito dei centri sociali capitolino. Si sono fatte notare sotto un’altra denominazione nata nel 2004 per ritornare più agguerrite che mai nel 2015 con il nome attuale. Ma giungere alla produzione discografica è stato un percorso lungo e faticoso. Il loro disco di debutto Love Is Respect, è uscito nel 2020 per l’etichetta Goodfellas. (g.d.f.)

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