Hervé Le Tellier, una finzione onesta verso la vera vita del partigiano André
Nel 2019, quando diventa presidente dell’Oulipo, Hervé Le Tellier appare senza dubbio come l’erede legittimo e rappresentativo del gruppo fondato nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais: un gruppo portato al centro del dibattito letterario negli anni Settanta dalla felice concomitanza di un clima culturale (gli ultimi fuochi del formalismo strutturalista) e di una straordinaria vena creativa individuale (di Georges Perec in primis, ma anche del Calvino ‘francese’), e poi avviato a uno sbiadito crepuscolo negli anni del cosiddetto «ritorno alla realtà». Niente di più lontano, infatti, dall’arte combinatoria, dallo scavo linguistico, insomma dalla «letteratura potenziale», dei tre fenomeni narrativi dominanti oggi, che sono – lo dico in modo un po’ spiccio – la rivincita senza pudori di ogni tipo di trama, la coazione alla cronaca della cosiddetta non-fiction e il narcisismo incrinato dell’auto-fiction.
Quasi nulla, se non lo spirito dei tempi, lasciava presagire che Le Tellier avrebbe scritto, nel 2020, un romanzo come L’anomalia, almeno in parte ascrivibile alla fantascienza metafisica e destinato non solo a vincere il Goncourt ma anche a diventare in Francia un bestseller epocale (oltre un milione di copie vendute; più tiepida l’accoglienza da noi). Nipotino di Calvino, ancor più che di Queneau e Perec, a suo tempo divulgatore scientifico (ha formazione di matematico, prima che di linguista), Le Tellier ha saputo coniugare il fascino facile dei destini incrociati (quelli dei passeggeri di un volo Parigi-New York) con la suggestione di ardui interrogativi filosofici: se ne sia nato un piccolo e tardivo capolavoro postmodernista, o un abile quanto inutile ibrido midcult, si può discutere.
Le radici formaliste e combinatorie sembrano invece recise nel più recente Quel nome sul muro, prontamente tradotto da La Nave di Teseo (pp. 176, € 19,00). Gli ingredienti sono quelli più in voga oggi: aggancio autobiografico (non c’è distanza sensibile fra autore e narratore), inchiesta storica (sugli anni cruciali della Resistenza), supporto documentario (nel volume trovano spazio fotografie d’epoca, riproduzioni di volantini del Maquis, lettere), e soprattutto un esibito afflato pedagogico, contro il ritorno attuale dei fascismi.
Il narratore compra una casa nella Drôme; gli cade l’occhio su un nome, André Chaix, inciso sull’intonaco della facciata; ritrova casualmente lo stesso nome su un monumento ai caduti della Resistenza; inizia una quête che lo porta a ricostruire alcuni aspetti (pochi e frammentari) della vita di André, morto a vent’anni in uno scontro con i panzer della famigerata Elfte, l’undicesima divisione corazzata della Wehrmacht.
Quasi per una sorta di contrappasso di poetica, e in implicita polemica con tanta docu-fiction contemporanea, in cui la finzione fa volentieri aggio sul documento, Le Tellier si impone a più riprese, con movenza metaletteraria, di essere onesto con André, di non «imbrogliare» (tricher), di non «svaligiare» (cambrioler) la sua memoria. Le fotografie, le poche lettere, asciutte e scritte con mano incerta, le dediche ingenuamente appassionate alla fidanzata, oltre a fornire informazioni fattuali, suggeriscono inevitabilmente ipotesi di fantasia: sulla personalità, le idee, i sentimenti di un ragazzo che aveva vent’anni nel 1944. Ma è la semplicità, perfino la banalità, delle immagini e delle parole riemerse dagli archivi del Maquis a riuscire non di rado intensa, e davvero commovente. Le ipotesi narrative, sempre presentate come tali (lo scrittore è fedele al suo impegno di «onestà» documentaria), si risolvono in digressioni appena abbozzate, non si legano (per fortuna) in una trama coerente.
Invece, molte pagine del libro si allontanano dal protagonista, per ricostruire un ambiente: la cittadina di Dieulefit e i suoi dintorni, con i personaggi variamente memorabili che durante la seconda guerra mondiale hanno trovato rifugio in quest’angolo settentrionale di Provenza. Su tutti, Henry Roché e Marguerite Soubeyran: il primo collezionista d’arte, intimo dei circoli dell’avanguardia parigina d’inizio secolo, poi in età matura romanziere poco fortunato – oggi lo si ricorda solo in virtù di un capolavoro di François Truffaut, tratto da un suo (bel) libro: Jules et Jim; la seconda pedagogista generosa, fondatrice della scuola di Beauvallon, che dal 1929 accoglie l’infanzia in difficoltà (e durante la guerra salva numerosi bambini ebrei), e soprattutto donna libera. Altre pagine, sempre scritte benissimo, ma più scontate, propongono un riassunto delle vicende della guerra e della Resistenza nella Drôme; con un memento indignato sulle radici filonaziste dell’estrema destra francese di oggi.
Il protagonista, André, torna in scena quasi solo per morire, in un agguato anonimo e crudele; e per ricordare ai lettori, con la sua sorte, la necessità di una scelta di campo coraggiosamente antifascista: in pagine un po’ (un po’ troppo) predicatorie, che girano a vuoto anche quando il loro intento civile è condivisibile – peggio, quando non lo è affatto: Le Tellier è sarcastico contro chi si ostina a apprezzare, in nome dell’estetica e della complessità del fatto letterario, gli scrittori invischiati nella Collaborazione, come Lucien Rebatet, Robert Brasillach e naturalmente Céline.
Certo, è bene ricordare sempre e ovunque i morti per la libertà; e per il lettore italiano è interessante conoscere meglio episodi poco noti della Resistenza francese. Ma come troppo spesso capita negli ultimi anni, l’afflato engagé appare qui inversamente proporzionale alla riuscita letteraria: la docu-fiction si trasforma in pamphlet. Giusto, perfino sacrosanto, ma prevedibile: incapace di aggiungere qualcosa alla nostra conoscenza del mondo. E se almeno nel testo francese resiste la felicità di una scrittura raffinata, elegante per sottrazione (niente lirismo, ci avverte il narratore, anzi censura preventiva di ogni metafora grandiloquente), e si fa apprezzare una lingua incline all’addensamento non gratuito, alla polisemia (questo sì, evidente retaggio oulipien), nella traduzione italiana di Anna D’Elia i giochi di parola sono quasi sempre sciolti in sciatta parafrasi, le brachilogie del parlato sono svolte in extenso e insomma normalizzate. Un solo esempio: privo di sepoltura individuale (cioè di concessione cimiteriale), in buon francese André sera à jamais un homme sans concession; in cattivo italiano, invece, «André sarebbe rimasto un uomo che non faceva e non usufruiva di concessioni».
Peraltro, a restituire spessore letterario al libretto non varrebbero da sole nemmeno la maestria linguistica e la consapevole regia metaletteraria – quest’ultima è del resto un topos della migliore docu-fiction: si pensi, da noi, a Antonio Franchini. C’è però un elemento di disturbo, un inquietante rumore di fondo, che compare a più riprese nel testo, senza essere mai sviluppato: il parallelismo fra il destino di André e quello di Piette, fidanzata dell’autore, morta suicida. Due esistenze diversissime fra loro, accomunate (solo?) da una morte a vent’anni. Forse era questo l’oggetto inconsapevole della quête? Se lo chiede il narratore, derubricando tuttavia l’ipotesi, e l’eventuale sospetto di denegazione, a freudismo da bar. Ignoriamo quasi tutto di Piette: basta la sua presenza misteriosa e perturbante, la sua radicale ambivalenza – la giocosa parodia di un fidanzamento, poi il gesto estremo, nient’altro – a riscattare Il nome sul muro?
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