Morire in posa non è mai un modo convincente di morire. Come ha mostrato Samuel Beckett nei suoi romanzi, quanto più ci si dispone al momento della fine, tanto più questo stenta a scoccare: la morte è sempre «tra poco». Meglio diffidare del suo arrivo, se è troppo annunciata. 

Willem F. Hermans – uno dei «tre grandi» del Novecento olandese, e il più beckettiano, ha calato il paradosso in una spy story disseminata di colpi di pistola e letali mosse di judo, al cospetto di una serie di cadaveri in pose plastiche fin troppo innaturali, simili a marionette: l’impressione potrebbe essere farsesca, di messinscena. Ma ciò che più colpisce nella scrittura di Hermans – a partire dai suoi romanzi ambientati durante la seconda guerra mondiale – è l’insistente, quasi imbarazzante mancanza di empatia nel raccontare lo scontro, il delitto, la morte. Cees Nooteboom ha parlato, a questo proposito, di «macchina diabolica», come se il male fosse uno scherzo nel quale i personaggi di Hermans sono incappati, lo scherzo per eccellenza, e la guerra ne fosse soltanto una versione particolarmente riuscita.

La camera oscura di Damocle (Iperborea, traduzione di Claudia di Palermo, pp. 448, 19,50 €), uscito nei Paesi Bassi nel 1958, consegnò a Hermans fama e successo, assieme al marchio a vita di bastian contrario del dibattito pubblico olandese. Il protagonista del romanzo, Henri Osewoudt, è un individuo di assoluta mediocrità, tabaccaio in una cittadina nei pressi dell’Aia. Era ancora un bambino quando la madre uccise il padre, evento che nella sua memoria va meccanicamente a sommarsi a numerosi altri, osservati e subiti senza alcuna partecipazione – almeno fino al giorno in cui l’esercito tedesco non invade i Paesi Bassi. Le città non sono ancora costrette all’oscuramento serale, ma la luce che penetra nel negozio di Osewoudt è già bassa, come appannata. L’uomo vede entrare una figura dai capelli corvini e il volto affilato, che gli somiglia sorprendentemente, e non può fare a meno di riconoscere nell’uomo che gli si para davanti, e che subito gli impartisce un ordine militare, il suo doppio. Fra il pavido Osewoudt e il suo sosia Dorbeck, un sicario della resistenza olandese, si instaura un patto tacito ma inviolabile; il primo sosterrà e talvolta sostituirà il secondo in azioni di sabotaggio. È così implicito questo patto, da imprimere alla storia il moto affannato che è proprio dell’inseguimento: nel caos della guerra mantenere i contatti è quasi impossibile. Tutti i messaggi sono lacunosi e criptati, quelli di Dorbeck più degli altri. L’unico appiglio, in questa trama opaca, che non dà punti di riferimento, sta in alcuni rullini fotografici: conterrebbero misteriosi scatti, legati ad ambienti tedeschi, da contrabbandare e scambiarsi con altre spie. Vi compaiono in realtà scene curiose, momenti bizzarri, soldati in posa, nessun atto cruento, né compromettente. Nulla mai si rivela.

Se, secondo Adorno, Samuel Beckett «alzando il sipario» aveva lasciato apparire il negativo della realtà, qui Dorbeck ha la funzione di un Osewoudt «in negativo». La sua è un’alterità che incita il debole all’azione e al misfatto, gettandolo alla cieca a combattere la sua guerra: «Sai, è un po’ difficile spiegarlo, ma è più o meno quello che succede nelle fabbriche: ogni tanto esce un prodotto con un difetto, allora ne fanno un altro e scartano l’esemplare malriuscito… Solo che io non sono stato scartato, pure se difettoso ho continuato a esistere. E non me n’ero mai reso conto, finché non ho incontrato Dorbeck. […] L’unico modo per rendermi accettabile era fare per filo e per segno come mi diceva. Ho fatto tutto quello che mi ha chiesto, ed è stato parecchio…».

Sullo sfondo dell’opera di Hermans non c’è solo l’orizzonte della guerra. Nel corso degli anni Novanta lo scrittore fu più volte ospite di una celebre trasmissione televisiva olandese condotta da Adriaan van Dis; durante una di queste conversazioni, l’intervistatore indicò, quale tratto ricorsivo della bibliografia del suo ospite, una continua tentazione a «mandare in rovina i suoi personaggi».

Hermans, che sarebbe mancato pochi anni dopo, affermò candidamente di infliggere tanti guai ai suoi personaggi perché «il lettore non si vergogni, ma si renda conto di non essere l’unico a vivere una condizione di assoluta disperazione». C’è, in queste parole, un moto di pietà, espresso con tono vivace, schietto e abilmente televisivo: sentimenti che, d’altro canto, sembrano mal conciliarsi con la realtà della sua scrittura, una prosa impassibile, svelta, che mai asseconda il lettore, connotata da uno stile descrittivo statico e a tratti spettrale, privo di metafore, che lascia interdetti.

L’apparente contraddizione è forse interpretabile alla luce dell’importanza che ebbe per Hermans la sua formazione scientifica; in gioventù aveva studiato geografia sociale, dietro pressione del padre insegnante, passando poi a geografia fisica, di cui fu docente per molti anni presso l’Università di Groningen, prima di venire ai ferri corti con l’intero entourage accademico e abbandonare l’incarico. Nel 1973 si trasferì a Parigi, dando inizio a un lungo, prolifico auto-esilio a cui risale uno dei suoi capolavori: Alla fine del sonno. Ambientato in Norvegia, il romanzo racconta di un giovane studioso di geologia impegnato nella ricerca su particolari meteoriti. Per individuare la posizione di alcuni crateri, l’uomo ha bisogno di visionare una serie di foto aeree, che risultano tuttavia lacunose e inattendibili. Vittima forse di un raggiro, forse di un errore umano, l’uomo si avvia esasperato per sperdute lande polari. Come già nelle città occupate della Camera oscura, anche qui la luce è statica, ha un che di preoccupante. Il dettaglio in teoria è banale, poiché a certe latitudini, in certe stagioni, il buio non arriva mai. Ma il fenomeno atmosferico non ha nulla a che vedere con la ragione del clima allucinato che incombe sulle ambientazioni di Hermans, dove il tramonto senza fine è cornice formale, sfondo contro il quale l’autore fotografa le vicende impossibili dei suoi personaggi.

Se su un piano di realtà la fotografia funge da controprova di ipotesi e supposizioni, sul piano narrativo è l’artificio che irrompe ancorando la finzione alla realtà, a volte stimolando la memoria, dischiudendone la dimensione emozionale. Non nei libri di Hermans, però, dove l’osservazione delle fotografie è sempre un passaggio a vuoto: in Alla fine del sonno il protagonista, fornito di immagini inutilizzabili, insisterà nell’osservazione di un paesaggio insondabile quasi fino a perdere il senno. E qui, nella Camera oscura di Damocle Osewoudt finirà sospettato dalla Gestapo prima, dagli Alleati poi, a causa di un fatidico rullino. In entrambi i casi, il negativo di pellicola è il velo traslucido entro il quale l’identità stessa del protagonista sembra dissolversi.

Verso la fine della sua intervista per la televisione olandese,  van Dis domandò a Hermans delle sue ossessioni. Essendosi trincerato prima in Francia, poi in Belgio, in molti ritenevano che fosse il suo paese d’origine a dargli tormento. Hermans rispose che sì, naturalmente la sua patria lo ossessionava, come solo i padri sanno ossessionare i figli. Nessuna mossa diversiva è sufficiente a liberarsi delle proprie origini, aggiunse. Forse anche perciò la sua opera ha avuto una ricezione tardiva: per la tendenza a smascherare, demitizzare, prendersi gioco di una tradizione nazionale che, per quanto periferica, non ha mai smesso per lui di essere centrale, e lo ha ancorato alla lingua nederlandese forse più di qualsiasi altro romanziere del secolo scorso.