In un noto libro di Edward Gorey, geniale artista statunitense dal tratto vittoriano e vagamente inquietante, intitolato The Doubtful Guest (tradotto da Adelphi come L’ospite equivoco) una strana creatura simile a un pinguino si autoinvita nel maniero di quella che ha l’aspetto di una nobile famiglia fin de siècle. L’aristocratica freddezza dei padroni di casa impone di tollerare i comportamenti bizzarri e dispettosi della creatura, che, sempre più riottosa, non dimostra alcuna intenzione di andarsene, fermandosi per ben diciassette anni.

Gorey aveva concepito questa storia come un racconto illustrato per bambini, ma il suo editore lo ritenne troppo disturbante per un pubblico infantile: le stanze e i corridoi quasi interamente inghiottiti dalle ombre che caratterizzano l’opera dell’artista, unite all’aspetto poco rassicurante del protagonista, lasciano in effetti intuire una dimensione psicologica oscura e turbamenti ben più profondi di quelli mostrati sulla pagina.

Le atmosfere morbose e lo humor nero dell’Ospite equivoco vengono immediatamente richiamate alla memoria dalla lettura del secondo romanzo di Herbert Lieberman, L’ospite perfetto (traduzione di Raffaella Vitangeli, Minimum Fax, pp. 356, € 19,00), pubblicato originariamente nel 1971. Autore conosciuto soprattutto per i suoi affondi nel poliziesco, genere che ha anche contribuito a ridefinire grazie soprattutto alla cupa, raffinata incursione nel thriller forense in Città di morti (1976), Lieberman possiede una chiara vena gotica (quando non apertamente orrifica) che si esprime nei suoi romanzi gialli in un marcato gusto per il macabro e nella volontà di condurre i lettori in luoghi bui e angosciosi, come per metterne alla prova i nervi in un crescendo di tensione che si fa insopportabile.

Non a caso, il titolo originale del romanzo è Crawlspace, alla lettera «intercapedine», ma che nell’etimologia suggerisce l’atto di strisciare («crawl»), con tutto un corredo semantico legato al viscidume di ambienti poco sani, alle tenebre, e al soffocamento. Ed è proprio l’intercapedine che si trova nella cantina dei ricchi e anziani coniugi Graves a rappresentare uno spazio cruciale nelle dinamiche narrative e simboliche del romanzo.

Il cognome dei due protagonisti è di per sé un altro suggerimento trasparente circa le atmosfere dell’Ospite perfetto: l’inglese «grave» sta infatti per «fossa» o per «tomba», termine che amplifica per ridondanza le caratteristiche della villa dei Graves e si riflette sulle vite degli abitanti, connotati da una perfezione ostentata e decadente, immobili nella loro routine che tende a virare verso una mortifera paralisi. Presto, però, a sconvolgere questo stato di cose arriva Richard Atlee, giovane operaio dal comportamento enigmatico e spesso incomprensibilmente ostile che entra nelle simpatie della coppia dando il via a un rapporto complesso e a dinamiche psicologiche perturbanti.

Com’è tipico della letteratura gotica, genere che Lieberman corteggia anche in questo romanzo – e in maniera ben più evidente che nella sua successiva carriera di giallista – l’ambientazione non è mai un fondale inerte, bensì un vero e proprio personaggio supplementare in grado di proiettare e amplificare la psiche degli attanti. Il ruolo del sinistro maniero dei coniugi Graves è in effetti di primo piano: ora è un accogliente focolaio domestico, ora un baluardo di civiltà nella barbarie che lo attanaglia e che in alcune scene ricorda da vicino il film coevo di Sam Peckinpah Cane di paglia, altre volte è un cupo labirinto che sembra intrappolare i tre, consumandoli lentamente come una creatura famelica. La mutabilità dell’ambientazione rispecchia e sottolinea la parabola discendente dei personaggi, condannati a una autodistruzione che rincorrono attivamente pur mascherando le proprie azioni con una pletora di stucchevoli riflessioni sull’animo umano. Tanto i coniugi quanto il solo apparentemente ingenuo Atlee si dimostrano presto personaggi detestabili, ma non è nelle intenzioni dell’autore instillare nei lettori sentimenti di simpatia. Al contrario, la tragedia grottesca del romanzo presenta una dramatis personae su cui Lieberman rovescia la sua visione antropologica cupa e del tutto irredimibile.

Come la fetida intercapedine della villa, nell’Ospite perfetto tutto ciò che non è ancora marcio è destinato a corrompersi. Con una vaghezza ricercata che incornicia il racconto in un mondo dai contorni fiabeschi, lo scrittore crea dunque una storia nera, perversamente dedicata a svelare il veleno nascosto sotto la superficie idilliaca della provincia americana, producendosi in una spietata disamina della famiglia statunitense in cui l’affetto si tramuta in cannibalismo, e l’amore in un rapporto vampiresco capace di prosciugare il proprio oggetto del desiderio.