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Henry James, il soliloquio negli occhi

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Ore italiane di Henry James, raccolta di scritti di viaggio composti fra 1872 e 1909, sono facilmente reperibili nella traduzione italiana di Claudio Salone con prefazione di Attilio Brilli. Per […]

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 24 agosto 2014

Ore italiane di Henry James, raccolta di scritti di viaggio composti fra 1872 e 1909, sono facilmente reperibili nella traduzione italiana di Claudio Salone con prefazione di Attilio Brilli. Per i curiosi della prosa di James, così intensa e intricata da far addirittura dubitare della possibilità di tradurla (e capirla), il testo originale, Italian Hours, si può scaricare facilmente da diversi siti. Henry James è uno scrittore senza vuoti, animato si direbbe dall’horror vacui. Ecco centinaia di pagine senza esitazioni, un flusso ininterrotto di impressioni, divagazioni, riprese, ritorni, incontri… La posizione è quella di chi, sovranamente, è al corrente di tutto, si schermisce per essere l’ultimo di una infinita schiera di visitatori, eppure guarda per ultimo con instancabile partecipazione, su un filo virtuosistico che sta fra la commozione e l’(auto)ironia. «Troppa grazia, padrone», come diceva quel tale.
Siamo in effetti in un mondo rarefatto, qualcuno potrebbe dire snobistico. Sbaglierebbe perché James da bravo americano non ha pregiudizi né affetta superiorità. Depreca le «orde» (nel 1880!) di turisti specie germanici, approfitta delle ore dei pasti per imbucarsi in San Marco o del crepuscolo per godersi in solitudine Pompei, e condivide con colti ma democratici lettori connazionali certi suoi segreti. Ideale per godere della Campagna romana o della propria gondola è la compagnia adatta, una compagnia particolarmente acuta e partecipe, dunque preferibilmente femminile. I loro scambi cortesi e arcanamente sensibili ai sensi più riposti di parole e intrecci di cose viste e cose pensate saranno come gli scambi di cui sono ricche le pagine di racconti e romanzi: si pensi alla Londra di The Altar of the Dead e alla New York di The Jolly Corner – recentemente riproposto con testo a fronte da Marsilio col titolo L’angolo bello –, dove il protagonista ha sempre una confidente dei suoi pensieri più segreti che permette all’esile trama di progredire.

Ma non esageriamo. Cacciatore di storie e impressioni, Henry James ha anche la facoltà di stringere parole e cose che contano e rappresentano sia una vita e un mondo tutto particolare ambientato nella Belle Epoque che una posizione sull’Italia, un reportage non dall’altroieri ma dall’altro secolo. La contemporaneità è già arrivata con la riduzione della realtà a parola e coscienza (Descrizione senza luogo è il titolo di una poesia del 1945 di Wallace Stevens), poi ci sarà il baratro mortale del 1914, a cui James non sopravvivrà (morì nel 1916, 72enne). Ma chi lo seguirà inserirà le aporie nella tela di ragno sovrana da lui disegnata, nello spazio da lui creato.
E l’Italia? Ore italiane si apre a Venezia, cui sono dedicate le prime ottanta pagine, prosegue con una visita degli anni 1870 al nord Italia (uno dei temi è il mutare del volto del paese e poi di Roma dopo l’Unità), quindi si sofferma a Roma e dintorni per un centinaio di pagine, poi ancora Siena, «L’autunno a Firenze» (1873), altre città toscane, Ravenna (1873), per concludere con l’abbagliante Capri visitata e rievocata fra 1900 e 1909. Ecco il nostro scrutatore alla Grotta azzurra: «C’era solo, sopra e sotto, attraverso il blu dell’aria e del mare, un grande confuso brillare di scogliere e crinali e bastioni brucianti, una perdita per la vicinanza della splendida sagoma coricata e della massa più generale e un’opportunità – niente affatto perduta, vi assicuro – di sedere e meditare, persino moralizzare, sulla tolda deserta, mentre una felice confraternita di turisti americani e tedeschi, comprendente è ovvio molte sorelle, si calava nelle tinozze dondolanti in attesa e, con alcuni colpi di remi, si infilava sistematicamente nel piccolo orifizio della Grotta azzurra. C’era un momento apprezzabile in cui erano tutti persi alla vista in quel ricettacolo, il momento ‘psicologico’ quotidiano in cui deve tanto spesso avvenire all’osservatore recalcitrante sulla tolda deserta di sentirsi consapevole di quanto sarebbe piacevole se nessuno di loro uscisse di nuovo.
Lo charme, il fascino di quest’idea sta non poco (anche se non tutto) nel fatto che, quando l’onda si alza sopra l’apertura, c’è la più incoraggiante apparenza che è perfettamente possibile che ciò avvenga. Ecco fatto. Non ci sono più. È una faccenda a cui la natura, con un colpo precisissimo e con il miglior gusto del mondo, ha tranquillamente provveduto».
Il tono di James è sempre conversevole, supercivilizzato, e anche (a essere maligni) un po’ zitellesco, come di una vecchia dama che continua imperterrita a vivere nel suo mondo arzigogolato. Ma c’è il piccolo particolare che James è uno zitellone genio, per cui le frasi si lasciano centellinare per la loro perfezione tornita. E poi James non è solo l’esteta, è un puritano dall’acutissima sensibilità morale. Giudica, non si abbandona, o riesce a far le due cose insieme, sempre col buon gusto supremo di trattare queste sue pagine come delle noterelle svagate. Per cui non c’è miglior libro in cui perdersi che Ore italiane, per cominciare a respirare, anche se è un respiro di secoli addietro. Ancora ci dà energia, come alcune delle pitture che entusiasmano James.

In un brano del 1909 ricorda la visita a Monteoliveto presso Siena, monastero deserto in seguito all’espropriazione dei beni ecclesiastici, mantenuto da un unico civile e tragico abate (di cui molti serbano il ricordo, vedi Il viaggio in Italia, 2006, di Attilio Brilli). C’è «il freddo eterno dell’enorme interno monastico in cui sorridendo digiunammo» (James ricorda addirittura di aver avuto la presenza di spirito di portare con sé uno spuntino, altrimenti a Monteoliveto non avrebbe trovato di che sfamarsi). Ma poi gli tornano in mente «quegli affreschi straordinariamente forti ed espressivi di Luca Signorelli e del Sodoma»: «Ricordo la frigida scorribanda attraverso tutto il resto della nudità, inclusa quella della grande chiesa disonorata e anche quella della testimonianza abissalmente rassegnata dell’Abate sulla sua situazione umana e personale; e poi, con una tale forza di contrasto e senso di sollievo, i grandi protetti bagliori solari e spruzzi di colore di composizioni e impianti scenici dove un paio di mani ridotte in polvere secoli or sono avevano così modellato il miracolo orgoglioso della vita e della bellezza che l’effetto è come di un giardino che fiorisce fra le rovine».

Analogamente James ha saputo registrare con tranquilla sicurezza di tratto quanto ha visto nei lunghi anni di frequentazioni italiane, e anche trasmettere sulla pagina il tono della sua voce. Si sa che negli ultimi anni egli era solito dettare i suoi lavori a una stenografa. Si vede che le frasi gli uscivano perfette, una legata all’altra da riprese di metafore e clausole. Non si fermava mai («an endless sentence» la chiamava Pound, che lo udì parlare, nel settimo dei Cantos). La mano e la lingua ridotta in polvere da quasi un secolo (1916) continua a parlare a chi naturalmente si siede nel circolo magico e privilegiato degli ascoltatori. Parla di impressioni curiose e rivelazioni, e sarà naturalmente in alcune pagine dei romanzi che toccherà vette che nell’arte della narrativa non hanno nulla da invidiare agli impianti scenici e alla visione morale dei più grandi artisti.
La frase che segue a quella citata sopra e conclude il capitolo non è delle più facili, ma le ultime due righe presentano una serie incantata di ulteriori definizioni degli affreschi (James, che non venne mai a patti con la sua omosessualità ed era schifato da Oscar Wilde, è pur sempre segretamente attratto dal soprannome Sodoma). Mentre l’antica pietà, lo spirito e l’intenzione degli affreschi sono «in un certo senso appannate», tuttavia rimane «still bright and assured and sublime – practically, enviably immortal – the other, the still subtler, the all aesthetic good faith». Strana parola in minore, questa «buona fede», su cui concludere una serie così esaltata, dove spicca quell’immortal, anch’esso preceduto da avverbi che precisano e risuonano musicalmente: «practically, enviably immortal».

James è da godere in questi dettagli, in queste dinamiche che dicono ma mai esagerano, se non per un vezzo che è subito presentato come tale. È il caso, nel brano finale su Capri e Napoli, dei periodi che un James in vena di prosopopee dedica al «nostro ultimo e più brutto e più mostruoso ausilio al moto», cioè… l’automobile (all’altezza del 1909: scendendo da Roma a Napoli per le vallate meravigliose e risalendo lungo la costa). «È vero di codesto mostro, come l’abbiamo sin qui conosciuto, che non si può né lodarlo né criticarlo senza arrossire: tanto riflette la compagnia che deve tenere» (questa non la capisco). «La sua splendida agile potenza indirizzata a fini nobili ne fanno di sicuro in talune occasioni una creatura puramente benefica…» Continuiamo in questo brano tutto da ridere, ma non solo, saltando una quindicina di righe: «La curiosità ha perduto, in seguito a questa estensione sorprendente, forse le sue salutari rinunce; la contemplazione è diventata tutt’uno con l’azione, e la soddisfazione tutt’uno con il desiderio – sempre parlando nello spirito dell’amante sconsiderato di un uso illuminato dei nostri occhi…»

Molto rumore per nulla, ma anche questo spettacolo del vecchio James che parte per uno dei suoi voli iperbolici è spassoso per quei complici che dopo tutto sono i lettori che entrano nella cerchia del vecchio maestro un po’ tocco ma sempre probabilmente consapevole e autoironico. Del resto basta girare pagina per sentire James dettare una delle sue barocche o edoardiane celebrazioni delle ore italiane. Ancora un sforzo (ne vale la pena). «Tuttavia, sto divagando pazzamente, cioè guardo troppo in avanti; la mia intenzione era solo lasciare che il mio senso della spietata bellezza di giugno del Golfo di Napoli all’ora del tramonto e sulla terrazza dell’isola si associasse con tutto il gusto inesprimibile del banchetto scenografico dei nostri due giorni motorizzati. La curiosa questione della squisita maniera grande come la più enfatica totalità delle cose: di cosa possa, espressa con tanta predominanza in natura, insidiosamente, nei secoli, apparecchiare a generazioni e popolazioni, non aveva aspettato quella speciale enfasi che ho detto per farmisi presente».
Chi ha capito alzi la mano… James qui riprende un pensiero di alcune pagine addietro, su cosa può avvenire all’uomo sociale e politico, cioè agli italiani, in un luogo così sfacciatamente dominato dal bello naturale e artistico. Purtroppo vediamo quotidianamente i disastri di questo paradosso. Continua e culmina James: «Devo averci riflettuto più o meno consciamente lungo il percorso. Poiché come non poteva essere un’essenziale verità, costantemente e intensamente davanti a noi, che l’Italia è davvero in tal misura il più bel paese del mondo, prendendo tutte le cose insieme, che gli altri devono restare in disparte e in silenzio quando lei parla? Vista così in grandi spazi onnicomprensivi e iridescenti, è l’incomparabile intrecciata fusione, fusione di storia umana e passione mortale con gli elementi di terra e aria, di colore, composizione e forma, che costituisce la sua attrazione e le dà la suprema grazia eroica…»

Cose viste e pensate si intrecciano in questo modo nel soliloquio o quasi stream of consciousness jamesiano, che è soprattutto un flusso di parole. Parole che ci giungono da un salotto edoardiano e che invitano e incantano e in fondo appagano come una delle registrazioni più compiute di una sensibilità e di una posizione esistenziale e artistica che possediamo. Resta il mistero di come il solitario viaggiatore James, che parla di settimane per le viuzze di Siena, di intere stagioni trascorse a Roma, Firenze e Venezia, potesse anche essere l’autore di un’intera biblioteca di romanzi e racconti formidabili, fra i quali almeno un capolavoro assoluto, Ritratto di signora, scritto appunto per buona parte in Italia. Infatti James è un viaggiatore operoso, che prima di sedersi al Caffè Florian in Piazza San Marco o passeggiare alle Cascine ha composto decine di pagine, scritto lettere, corretto bozze (molte e incessanti le revisioni dei testi usciti in rivista, poi in volume, poi ristampati a distanza di decenni in edizioni uniformi). L’età dell’agio, sembrerebbe, dove il tempo non mancava, perché poi in James mai un senso di fretta, di non aver tempo. Anzi, si prende tutto il tempo del mondo, e come una volta confessò, il minimo frammento di storia (per lui «cacciatore inveterato di storie») diveniva voluminoso. Perché c’è la storia, come diceva, e la storia della storia, quella che di solito racconta, cioè come la storia viene rifratta in tutti i partecipanti chiamati al banchetto dell’esistenza. E poi ci vogliono le parole, che a loro volta hanno i loro ritmi, parentesi, ramificazioni.

Tutto per nulla? No, perché come si diceva c’è sempre il fondo di una visione anche austera delle scelte fondamentali (non edonistiche pur in tanto tripudio di impressioni). Il fratello psicologo William, quando riceveva e leggeva controvoglia i romanzi di Henry, gli scriveva che non capiva perché perdesse tempo dietro a tali frivolezze e flatus vocis, chiaramente non sensibile alla tavolozza magistrale del prosatore e alla sorprendente acutezza del suo sguardo nel profondo dove le cose oscure si agitano, le grandi domande sulla vita. Henry si proteggeva da questa incomprensione e dalla crassa materialità della sua epoca di benessere pacioso mimetizzandosi, circondandosi di un cuscinetto di gomma di parole. Diceva che se persone così avvertite, con antenne così ipersensibili, come quelle dei suoi racconti, non esistevano, andavano inventate per l’onore della specie. Da ciò l’effetto di crescita che le sue pagine, come sempre la grande arte, producono nel lettore. Anche Proust scriveva che le frasi del Tristano e Isotta rivelavano nel nostro animo una profondità che non sapevamo di possedere. Un’esperienza salutare.
E poi curiosamente, contro le perplessità di William sulle barocche costruzioni di Henry, il cinema ha recentemente dato ragione al romanziere: i suoi racconti sono avvincenti, tanto da prestarsi alla traduzione e in fondo volgarizzazione e reggere benissimo per un pubblico poco in vena di sofisticherie. Perfino La coppa d’oro, tardo romanzo che pochi hanno il coraggio di affrontare, è diventato un film perfettamente riuscito. James, cacciatore inveterato di storie, sapeva far tesoro dell’esperienza, ma ne aveva tanta che certo l’ispirazione non gli mancava. Lo dice anche in queste Ore italiane che da grande artista dovunque si volga trova soggetti. Le pagine su Genova e su una giornata trascorsa fra la Portovenere di Byron e la Lerici di Shelley sono per chi le conosce un ottimo esempio di elaborazione felice di una serie di rapide impressioni per il gusto dei lettori che sono sempre presenti, chiamati a partecipare di tanta dovizia e cordialità. Anche il capitolo su Casa Alvisi, dedicato alla defunta Mrs. Bronson, una confidente e ospite che accoglieva i visitatori a Venezia come amichevole padrona di casa e metteva in scena spettacoli con piccoli veneziani a Casa Alvisi (dirimpetto alla Salute) prima di trasferirsi nell’Asolo di Browning, dà tutto un senso di una civiltà di ieri ma anche di oggi.
Ma vediamo come James apre Ore italiane e le sue impressioni veneziane, con sovrana captatio benevolentiae (nel 1882, 142 anni fa!): «Non c’è più nulla da dire sull’argomento. Tutti ci sono stati, e tutti ne hanno riportato una raccolta di fotografie. C’è tanto poco mistero intorno al Canal Grande quanto intorno a una nostra via locale, e il nome di San Marco è familiare come il campanello del postino. Non è proibito, tuttavia, parlare di cose familiari, e ritengo che, per il vero amatore di Venezia, Venezia sia sempre ben accolta».

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