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Henrik Pontoppidan, con ali d’aquila, condannato a vivere tra le anatre

Henrik Pontoppidan, con ali d’aquila, condannato a vivere tra le anatreMichael Peter Ancher, «Jens Vige», 1890

Scrittori danesi Ricalcando il titolo di una novella di Hans Christian Andersen, Henrik Pontoppidan ne rovescia il romanticismo malinconico in un romanzo-fiume di denso realismo: «Pietro il fortunato», suo capolavoro finora inedito in Italia, da Fazi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 giugno 2022

E’ noto come Henrik Pontoppidan non avesse in simpatia la visione del mondo di Hans Christian Andersen, scomparso nel 1875, quando lui diciottenne si era appena trasferito a Copenaghen per studiare da ingegnere. Di dar voce alla polemica con il connazionale, Pontoppidan si preoccupò più tardi, nel 1893, con la prima stesura del racconto «Volo d’aquila» – scritto a Roma – in cui il parallelismo con il grande fiabista è tutt’altro che nascosto. La storia, poche pagine, racconta infatti di un aquilotto trovato fuori dal nido e portato nel cortile della vecchia canonica, dove «come il Brutto anatroccolo della fiaba, crebbe tra schiamazzi di anatre, chiocciar di galline e belati di pecore».

Come l’anatroccolo, l’aquilotto cresce nel luogo sbagliato, ignaro della propria natura. Ma un giorno spicca il volo e si ritrova a librarsi alto fuori dal cortile, seguendo ben presto un’aquila femmina verso picchi eternamente innevati. Preso dall’angoscia, torna finalmente alla canonica, dove essendo stato scambiato per un rapace ostile viene abbattuto da un colpo di fucile.

A ricordarci quale sia la pietra di paragone del testo è di nuovo, in chiusura, lo stesso Pontoppidan: «non importa essere uscito da un uovo d’aquila quando si è cresciuti nel cortile delle anatre», una frase che fa eco a quella di Andersen secondo cui «non importa essere nati nel cortile delle anatre quando si è usciti da un uovo di cigno». Due scrittori, due epoche, due visioni conflittuali.

Per, Peer, Pietro
La contrapposizione con l’illustre collega stava evidentemente a cuore a Pontoppidan – realismo contro romanticismo (per quanto sia legittimo generalizzare) – dato che pochi anni dopo ci tornò su con il romanzo Pietro il fortunato, tradotto ora per la prima volta in italiano da Alessandro Storti per Fazi (pp. 798, € 22,00). Il titolo originale, Lykke-Per, ricalca infatti – quasi – alla lettera il Lykke-Peer di Andersen (pubblicato anni fa da Iperborea come Peer fortunato), suo ultimo romanzo – del 1870 –, dove è esplorato ancora il tema del protagonista baciato dalla fortuna, che però questa volta muore giovane «nella gioia della vittoria, come Sofocle ai giochi olimpici».

Tanto era breve la novella di Andersen, tanto è ampio e complesso il romanzo di Pontoppidan. Pubblicato in otto volumi tra il 1898 e i primi del Novecento, poi vigorosamente ridotto nel 1905, descrive con uno sguardo molto concreto la Danimarca del passaggio di secolo, dipingendo un mondo in cui il progresso tecnologico è sottomesso a una società ancora rigida e tradizionale e il protagonista, genio mancato ma dotato delle ali di un’aquila, si trova a vivere nel cortile delle anatre.

Un ragazzo di campagna
Trasformato nel 2018 in una produzione Netflix diretta da Bille August, che si direbbe abbia il vezzo di affrontare (con successo) i capolavori della letteratura, il romanzo è centrato sul figlio di un pastore di campagna, Per Sidenius, che per ribellione alla rigida morale religiosa di una casa povera e affollata se ne va a studiare ingegneria a Copenaghen (chiara l’eco autobiografica). In ambienti della capitale radicalmente diversi da quello in cui è nato, Sidenius assapora il successo, sogna di dominare la natura con ardite invenzioni, si fidanza con Jakobe, figlia di uno degli ebrei più ricchi e influenti della città. Ma la morte improvvisa del padre e poi quella della madre gli suonano come segni di un suo necessario ritorno a casa, dove per un po’ riscopre la fede. Sposa la dolce Inger, figlia di un pastore di indole e formazione opposte a quelle del padre e infine divorzia e si ritira in solitudine, lavorando come ispettore delle strade. Ogni velleità è abbandonata ma egli è libero e consapevole di se stesso, dei tratti luminosi e soprattutto degli aspetti più bui del suo animo. Dopo la morte i pochi amici leggeranno nel suo diario che «senza un grande, anzi, favoloso coraggio di volere se stessi in una divina nudità, nessuno raggiunge una vera liberazione».

Nella sua complessità, il testo descrive precisamente le ambientazioni operaie e quelle del mondo finanziario e intellettuale dell’epoca, com’era proprio di Pontoppidan, la cui lunga carriera approdò al Nobel nel 1917, ma è anche convincente nel restituirci le elaborazioni dell’animo di Sidenius.
Pochi anni dopo la sua pubblicazione in Danimarca, Lukács ne parlò come di «un grande romanzo», affiancandolo al Don Chisciotte e lodando «il tentativo di fare di questa struttura dell’anima il centro e di rappresentarla in movimento e nel suo sviluppo».

Thomas Mann, probabilmente riprendendo dal romanzo di Pontoppidan le lodi dell’ingegneria pronunciate dalla giovane Jakobe, gli paga un qualche tributo quando racconta l’incontro tra Castorp e Settembrini nella Montagna magica. E ancora nel 1927, quando gli fu chiesto di mandare un saluto al collega danese per i suoi settant’anni, lo fece con una lettera dalla Poschingerstrasse di Monaco, indirizzata allo scrittore «di perfetto rango europeo», autore di Hans im Glück – titolo tedesco del romanzo, che riprende una fiaba dei Grimm, allora noto in Germania nella traduzione di Mathilde Mann (una parente, pare, acquisita).

Del resto la fama di Pontoppidan era ben radicata se per il suo ottantesimo compleanno venne chiesto a un altro grande tedesco, Ernst Bloch, di scrivere qualcosa in suo onore: Bloch tuttavia equivocò l’occasione, e compose un lungo necrologio in onore del «grande scrittore scomparso». Niente affatto piccato, Pontoppidan lo ringraziò per le belle parole, e cortesemente lo informò di essere ancora vivo.

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