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Henri Barbusse, giornale di trincea in bianco-nero scritto dal basso

Henri Barbusse, giornale di trincea in bianco-nero scritto dal bassoBatteria di cannoni francesi a Verdun, predati dai tedeschi, 1916

Scrittori testimoni «Il fuoco» è un archetipo (antibellicista) della letteratura della Grande Guerra: Henri Barbusse lo pubblicò in volume nel 1916 suscitando, anche per l’argot, l’interesse di Céline. Torna negli Oscar

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 1 settembre 2024

«Avevano un aspetto terribile, pietoso. Ce n’era uno con il volto completamente nero, le labbra tumefatte e livide, le mani a pezzi: era mostruoso, spaventoso». Questo terribile referto, scritto il 14 ottobre del 1915 nel corso della battaglia dell’Artois, si deve a un soldato del 231° Reggimento di Fanteria francese e apre, mai tradotti in italiano, i suoi Carnets de guerre. Il soldato, non più giovanissimo, è della classe 1873, si chiama Henri Barbusse e dai suoi taccuini già nel 1916 uscirà un romanzo, Il fuoco Diario di una squadra, che resta fra le massime testimonianze della Grande Guerra e ora torna in libreria nella buona versione di Lorenzo Ruggiero (Mondadori «Oscar Moderni Cult», Introduzione di Denis Pernot, pp. 399, € 15,00).

Allo scoppio della guerra, anche se da tempo malato ai polmoni, Barbusse si è persuaso a offrirsi volontario per combattere l’imperialismo tedesco e, com’è nei voti dell’interventismo democratico, per farla finita con tutte le guerre. Formatosi nei cenacoli del Naturalismo e poi del Simbolismo, autore molto prolifico e diseguale, pubblico funzionario, al fronte si guadagna due medaglie al valore e, trasferito dopo un anno come barelliere nelle retrovie, sulla base degli appunti contenuti nei Carnets prepara il romanzo che reca nell’explicit la data del dicembre 1915 ed esce in 93 puntate sul periodico «L’Oeuvre» per essere subito dopo pubblicato in volume, nello stesso ’16, da Flammarion. Ottiene immediatamente il Goncourt e viene universalmente percepito come un atto d’accusa contro la guerra, scritto in piena guerra e letto dai soldati ancora in prima linea: la tiratura immediata è di 200.000 copie che arriveranno in meno di vent’anni a quasi il doppio, unitamente al numero inestimabile delle traduzioni (e fra le prime quella in italiano, da Sonzogno nel 1918, a firma di Giannetto Bisi). Presto il romanzo diviene un archetipo della letteratura di guerra se persino uno scrittore avarissimo di riconoscimenti quale Louis-Ferdinand Céline dirà sempre che, senza l’esempio de Il Fuoco, egli non avrebbe mai scritto il Viaggio al termine della notte.

Il romanzo è diviso in ventiquattro capitoli titolati e di struttura modulare (dunque calcolabili nell’insieme ma comunque autosufficienti), non presenta alcuna trama ma si offre come un vero e proprio giornale di trincea. Non ci sono personaggi ma le voci spiccatamente regionali di un coro polifonico, il narratore dice «io» ma quel suo «io» risuona dentro un «noi» che è tipico della letteratura epica, anche se dell’epica della nuda sopravvivenza. Il che vuol dire anche che l’«io» testimone e portavoce parla sempre da sotto e cioè dall’esperienza degli uomini comuni, i commilitoni di Barbusse detti in francese argotico poilus, vale a dire villosi, pelosi (con la barba mai rasata) ovvero individui duri, tetragoni, autentiche pellacce. Sia detto per inciso, la voce sprigionata dal basso della trincea può evocare la lunghissima carrellata all’indietro, un piano-sequenza, che aprirà nel ’57 Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, girato in un glaciale biancoenero e ambientato nella regione francese della Somme: la macchina da presa, in quella memorabile sequenza, procede a ritroso ed è collocata all’altezza dei piedi, tra il fango e i rifiuti che gremiscono la trincea. Anche nel Fuoco il teatro bellico è chiuso in quei budelli interrati e labirintici da dove non si vede mai il corpo a corpo ma si avverte, tra la fame, il freddo e le ferite, la morte sempre incombente.

Si può dire che anche Barbusse scrive in biancoenero perché non c’è mai il sole nella pagina e anzi il cielo è sempre cupo e gravido di intemperie, quasi duplicasse la dinamica omicida della guerra. Né basta allo scrittore guadagnare il punto di vista dal basso perché sente il bisogno di un lingua bassa altrettanto, la parola sporca e dialettale dei suoi poilus che sembrano aprire bocca solo per sagrare e imprecare: e infatti la scelta delle coloriture idiomatiche e più in generale dell’argot (un precedente decisivo, appunto, anche per Céline) non si spiega in altro modo.

All’uscita di quest’opera criptopacifista, scritta per estremo paradosso da un combattente pluridecorato, il pubblico e la critica si dividono: un maestro della stilcritica, Leo Spitzer, pubblica nel ’20 Studien zu Henri Barbusse dove mostra come le immagini del romanzo, spesso sadiche e di forte oltranza sessuale, siano leggibili alla stregua di una denuncia del grande massacro e, più in generale, dello spargimento di sangue; d’altro lato, un grande critico militante ma di estrema destra, Léon Daudet, scrive che il romanzo «è un libro ignobile, infimo e dissolutore, che può essere considerato un servizio reso al nemico». Fatto sta che in un’opera così spoglia, cruda e antiretorica, l’ultimo capitolo intitolato L’alba contiene la battuta, cioè la parola d’ordine antimilitarista, che è diventata più celebre del romanzo medesimo: «Due eserciti che si combattono, sono come un solo grande esercito che si suicida». E fatto sta che, appena smobilitato, Barbusse nel ’17 fonda l’ANAC (Associazione repubblicana dei vecchi combattenti) e viene moltiplicando la sua produzione di autore engagé: dirige la rivista «Clarté», quindi «Monde» e poi dal ’26 addirittura l’Humanité, il quotidiano del Partito comunista cui ha aderito pur non essendo un marxista e anzi rimanendo sulle posizioni di un generico umanesimo progressista: ciò non toglie che nel ’27, al suo primo viaggio in Unione Sovietica, venga solennemente accolto come una specie di Maksim Gor’kij francese.

Ma Barbusse è rimasto l’intellettuale radicale e democratico della Terza Repubblica: quando nel giugno del ’35, al Palais de la Mutualité, egli prende la parola nel grande convegno per la difesa della cultura dal nazifascismo una giovane fotografa, Gisèle Freund, lo ritrae nel palco d’onore seduto tra Paul Nizan, André Malraux e André Gide. Ha appena gridato dal palco il suo credo di antifascista e antimilitarista ribadendo la feda umanistica nonostante abbia appena pubblicato Stalin (poi, a cura di Francesco Francavilla, Universale Economica 1949), una biografia edificante, encomiastica, dove canta le gesta del Piccolo Padre anche se, va ricordato, il libro è scritto prima delle purghe e del Grande Terrore.

È proprio a Mosca che il 30 agosto del ’35 Henri Barbusse muore per l’improvviso acutizzarsi dei vecchi problemi polmonari. Stalin decreta una solenne veglia funebre e il viaggio di ritorno in Francia della salma su un convoglio ufficiale: una settimana dopo, il 7 settembre, una grandiosa manifestazione come non se ne vedono a Parigi dai funerali di Zola, organizzata dal PCF, accompagna il feretro dello scrittore che viene tumulato nell’altura nordorientale del Père-Lachaise dove tuttora riposa vicino al Muro dei Federati. Il suo testamento lo ha dettato venti anni prima nell’ultimo capitolo del suo romanzo: «Eroi, degli uomini straordinari, degli idoli? Suvvia! Abbiamo fatto onestamente il mestiere di assassini! Lo faremo ancora, e senza risparmiarci, perché quello che conta davvero è fare bene questo mestiere, per punire la guerra, per strozzarla. Uccidere è una cosa ignobile – a volte necessaria, ma pur sempre ignobile. Sì, spietati e infaticabili assassini, ecco cosa siamo stati. Ma che non mi vengano a parlare di virtù militari solo perché ho ammazzato dei tedeschi…». Custodiva una grande verità, la voce dei poilus.

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