Cultura

Hélène Cixous, tra «conversazioni» di creature umane e non umane

Hélène Cixous, tra «conversazioni» di creature umane e non umaneHélène Cixous / foto Getty

ITINERARI CRITICI Parla la scrittrice a proposito del suo libro «Animal amour», edito in Italia da Poiesis. «In questo contesto, non si tratta di imparare la lingua dell’altro, ci troviamo oltre la logica di dominazione. Fips è un cane e la sua figura è avvolta dalla tragedia. In un contesto storico di violenza assoluta, come quello dell’Algeria coloniale»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 27 luglio 2023

Gli animali non umani parlano, tra di loro, con noi e con il vivente tutto – e lo fanno tramite «la lingua dell’amore» spiega Hélène Cixous. Nonostante la tradizione filosofica occidentale abbia loro negato la prerogativa della ragione e anche quella del linguaggio, essi abitano il nostro immaginario come creature dotate di logos, soprattutto grazie alla letteratura.
Nella loro irriducibile individualità e sorprendente contiguità rispetto all’essere umano gli animali non umani sono i personaggi del prezioso libro di Hélène Cixous, intitolato emblematicamente Animal amour (pp. 56, euro 12), edito in italiano da Poiesis editrice nella traduzione di Lucrezia Lenti, Antonia Guarini e Paola Armenti.
In questo testo, che nasce nella collezione «Les petites conférences» dell’editore francese Bayard e che è destinato originariamente ai più giovani – secondo la tradizione delle emissioni radio che Walter Benjamin redigeva per la radio tedesca nei primi anni Trenta (1929-1932) – Hélène Cixous rievoca il suo rapporto con gli animali non umani sul filo della sua biografia, che attraversa la storia del Novecento. Primi fra tutti gli anni concomitanti alla Seconda Guerra mondiale e quelli dell’Algeria coloniale.

«Da un giorno all’altro, agli occhi dei nostri fratelli arabi, siamo diventati gli ebrei, i bianchi e persino i francesi che non eravamo mai stati. E perché? In qualche modo erano talmente maltrattati, in modo così disumano e vergognoso, da essere rossi di rabbia, come i cani che, martoriati, finiscono per mordere i loro simili. Non sapevano che anche gli ebrei erano stati colonizzati e che anche loro erano stati cacciati dai francesi».

Nel suo libro, lei parla di tradimento: degli esseri umani nei confronti degli animali. Ma anche degli esseri umani nei confronti della loro stessa umanità. Racconta di questo tipo di tradimento come di qualcosa di terribile, dell’ordine della schiavitù e dell’infernale. Perché proprio tradimento? Ce n’è uno che ritiene imperdonabile?
Il tradimento chiama e interroga l’amore. Tradiamo solamente ciò che amiamo. Rompiamo la parola data nei confronti di coloro i quali sono nostri compagni, con i quali al principio abbiamo instaurato un legame d’adozione e di fiducia. Si tratta di un’alleanza. In francese, come in italiano, esiste la definizione «animali da compagnia», ma in tale definizione trovo che ci sia qualcosa che ha a che fare con il servizio, come quello delle dame di compagnia, un rapporto insomma tra superiori e inferiori.
Nella vita urbana, al parco, capita spesso di vedere un umano e un animale: dovrebbero essere momenti di compagnia quelli, invece c’è un guinzaglio, una corda, un’incarcerazione virtuale, un imprigionamento. E ci sono i padroni, i proprietari che intervengono per privare della libertà: quella tra due cani di incontrarsi ad esempio, quando vengono prontamente tirati e privati di comunicazione. Si tratta di un atto di schiavitù non dichiarata che si insinua dappertutto. Tramite la schiavitù l’essere umano nega la propria umanità. Anche tramite il tradimento la nega. Nel «ti prendo, ti lascio, scelgo di lasciarti in vita o di togliertela», l’essere umano tradisce e tradisce la pulsione di fiducia che gli animali hanno nei confronti degli umani. Il tradimento è imperdonabile e in questo senso non riesco a scegliere quale lo sia di più, se non nel senso che certo non si può recuperare, perché il crimine compiuto è rapido e inaccettabile.

Riassumendo in una frase «Animal amour», si potrebbe dire che questo piccolo libro parla della libertà. Nonostante nella copertina francese e italiana sia raffigurato un gatto, o una gatta, il protagonista è un cane, Fips – figura esatta della libertà. Può spiegarci come questa libertà si scontra con la prigionia (nelle sue tante forme)?
La dimensione che avvolge la figura di Fips è quella della tragedia. In un contesto storico di una violenza assoluta, come quello dell’Algeria coloniale, Fips era una figura della mitologia greca, una figura biblica, un profeta, un rappresentante dei dolori che incendiavano la storia dell’Algeria. Era un essere, minuto, rappresentante di tutti quegli esseri presi in ostaggio dalla violenza storica. Si trattava di violenza tra le comunità umane, come di quella tra i Greci e i Troiani. Insieme a Fips io e la mia famiglia ci trovavamo in un paese occupato dai francesi dal XIX secolo, in cui la quotidianità era impregnata d’impotenza, d’odio, di furore da parte degli umiliati nei confronti dei propri carnefici – contenti d’esser tali. Fips era innocente, non apparteneva a nessuna armata, non era né greco né troiano. Fu accolto dalla mia tribù, dal mio clan, dalla mia famiglia e si trovò a far parte del campo di battaglia dei suoi genitori adottivi – acquisendo in tal modo lo statuto di assediato, di perseguitato. Questo era il primo cerchio del suo inferno. Il secondo era invece quello dove tutti si perseguitavano reciprocamente con estrema violenza. Fips era un innocente, dalla parte della vita, e si è trovato in una delle due armate e a causa di ciò ha pagato per tutti: ingiuriato, minacciato, attaccato proprio come un bambino o una bambina della tribù avversaria. Per errore. Il carattere che lo definisce sta nelle epopee: un incompreso! Noi in realtà eravamo dalla parte di coloro i quali ci attaccavano, eppure eravamo accusati, perché essi non riuscivano a decifrare la nostra posizione.
Fips fu maltrattato: accusato, condannato, lapidato, senza aver mai fatto corpo con la causa. Innocente, martirizzato, pagava per una causa che non era la sua ed era accusato in una lingua che non era la sua: la lingua degli umani. Forse si chiedeva: chi sono, un uomo, un ebreo? Come nelle epopee è diventato furioso. Fips mi fa pensare al personaggio di Michael Kohlaas di Heinrich von Kleist, preso dall’ingiustizia.

La comunicazione con gli altri viventi rivela quanto il dialogo intraspecifico possa richiedere una diplomazia interpretativa. Cosa ne pensa?
Nel mio caso io non mi servo di nessuna diplomazia interpretativa, perché nella comunicazione con gli animali mi servo, come loro, della lingua dell’amore. Non c’è sforzo, se non quello d’imparare una terza lingua, una lingua comprensibile per me e per loro. Si tratta di una lingua sonora, ma soprattutto di una lingua di segni in cui loro sono tutto corpo. Certo, anche l’intonazione della voce conta molto. Non si tratta quindi di imparare la lingua dell’altro, siamo oltre quella logica per cui esiste una lingua dominante che viene imposta o ci si impone di imparare. Siamo davvero profondamente lontani dall’imposizione coloniale di una lingua ad esempio. Il dialogo fiorisce nel momento in cui si impara una lingua terza, che entrambe le parti cominciano a parlare. Si tratta di una lingua comune tale per cui quando l’animale si rivolge all’umano tenta di farlo secondo i codici comunicativi propri dell’umano: tentando di parlare umano, senza esserlo. E l’uomo di parlare gatto ad esempio.

In «Animal amour» lei parla di «desertificazione», in riferimento alla sesta estinzione di massa – che è già in corso. Lei aggiunge che sarà «un deserto dell’immaginazione». Cosa intende dire?
Per rispondere bisogna prima contestualizzare storicamente. Era il 2006, quasi vent’anni fa (la conferenza da cui è tratto questo libro è stata pronunciata il 21 gennaio 2006 al Nouveau Théâtre di Montreuil, ndr). Vent’anni fa la coscienza ecologica era meno presente, anche se già all’epoca ricordo si pensava al 2050 come data limite, legata alla sparizione delle grandi scimmie. Ora si sa che tutto sparirà: mammiferi, insetti, uccelli, la vita sulla terra sparirà. Oggi lo sappiamo, ma non ci muoviamo di conseguenza. L’immaginazione, la nostra immaginazione, è per certi versi pigra, perché non vuole vedere, non vuole credere e si accontenta. Invece dovrebbe essere allieva della coscienza, per salvare la parte animale degli esseri umani, per i loro figli. L’immaginazione, che si degrada, è qualcosa di davvero prezioso. Durante la conferenza del 2006 parlavo a dei bambini e a delle bambine, i quali hanno un universo immaginativo immenso: che è anche quello delle fiabe, in cui tutto si fa e si disfa, in cui tutto può accadere. Poi questo universo immaginativo si dimentica, si perde. Alla mia età sono una testimone, come lo sono i testimoni (i pochi che restano) della Seconda guerra mondiale. Sono testimone di guerre, massacri, le guerre di decolonizzazione. A fronte di tutto ciò c’è sempre stato, nella mia immaginazione, un prima e un dopo. Un anteguerra e un dopoguerra. Ma ora mi chiedo: dopo l’annientamento delle creature sulla terra cosa ci sarà? Cosa ci sarà dopo le rane, dopo le scimmie, dopo le farfalle?

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento