«Raccontare la storia della sovversione culturale degli anni ’90 serve a far capire alle nuove generazioni come, dopo il crollo della via della violenza degli anni ’70 e del buonismo degli anni ’80, potevano arrivare i germi del cambiamento». Storica figura dei movimenti transgender e punk, Helena Velena riflette su quel decennio di sperimentazioni.

Cosa è cambiato da allora e perché quella stagione delle controculture si è chiusa?
È cambiato tutto, compresi i centri sociali. Se si esclude il Forte Prenestino e qualche squat anarchico, a Roma gli spazi occupati cominciano ad avere la tendenza di essere luogo di aggregazione di quartiere. Il che non è un male in sé, ma non trova adeguato spazio un’avanguardia controculturale. Si fanno solo le serate di musica alla portata di tutti, o reggae e pizzica. Si cerca il minimo comune denominatore invece del massimo comune multiplo.

Che differenza c’è tra il movimento transgender di oggi e quello di ieri?
Forse più che di movimenti dovremmo parlare di un sentire comune che richiede la libertà di vivere la propria sessualità e che include, tra gli altri, transgender, gender fluid, Lgbt, femministe. Questo rappresenta oggi l’unico terreno di scontro dionisiaco dove si parte dal bisogno di essere felici e stare bene. La lotta per la liberazione passa per la sessualità; è questo il vero vento che può portare la voglia di essere liberi anche su altri fronti. Purtroppo però Vaticano, destre, Pd e M5s remano contro.

All’epoca, lei è stata una produttrice di musica punk…
È stata l’esperienza musicale più intensa e debordante che ho conosciuto. Fui fulminata in particolare dai Crass, che inventarono l’estetica, i contenuti e la logica dell’autoproduzione del punk anarchico, che esiste ed è ancora importante. È dal punk che sono nate tante cose ancora in voga: ad esempio nei videoclip musicali c’è molto di quell’atteggiamento. Ora ci sarebbe bisogno di un punk 3.0, ma non so se arriverà mai. Non vedo segnali. Ma una delle lezioni del punk è questa: «se ti lamenti perché qualcosa non c’è, smetti di lamentarti e fallo tu». Io agisco così.

Nel 1980 guidò la contestazione al concerto dei Clash a Bologna. Perché?
Li consideravamo un gruppo che aveva svenduto il punk alle multinazionali, come denunciavano anche i Crass. Questo provocò una spaccatura nel movimento punk italiano: però quei detrattori con cui all’epoca litigammo, oggi ci danno ragione. Tra l’altro, il giorno dopo il concerto incontrai Joe Strummer ubriaco fradicio. Parlammo e alla fine ammise che ormai la loro musica non era più punk. Il rock sarà anche divertente ma è una musica fatta per tranquillizzare la gente; il punk si muove lungo l’anarchia e l’autogestione.

Ha prodotto il primo disco dei Cccp. Come li ha conosciuti?
Nel 1982, a Carpi. Il comune era stato generoso con la festa del patrono, organizzata nella piazza principale con Fiorello, Ivana Spagna e i Ricchi e Poveri su un megapalco. A un festival punk concessero solo una piazzetta in mezzo a un rivolo di strade; lì si esibirono, tra gli altri, i Cccp. Recitavano poesie su una base di batteria elettronica e chitarra elettrica. Dietro di loro, una gigantesca bandiera rossa. Proposi loro di fare un disco, visto che mi erano piaciuti moltissimo. Mi risposero che non erano proprio un gruppo musicale e che non avevano un vero repertorio, ma che ci avrebbero pensato. Qualche settimana dopo vennero a Bologna e accettarono.

La conversione di Lindo Ferretti al pensiero di destra non costituisce un tradimento simile a quello dei Clash?
Molti me lo chiedono, e io rispondo sempre: «Ma li avete letti i loro testi?». Era già tutto scritto lì. I Cccp hanno iniziato facendo apologia dell’Urss, poi sono passati a difendere l’Islam e in seguito il papa e Giorgia Meloni. Il filo conduttore appare chiaro: Giovanni ha sempre cercato un potere forte in cui credere. Lo capii presto.

Negli ultimi vent’anni si è prodotto qualcosa di valido nell’ambito controculturale?
Nella musica, chiave di lettura di ogni periodo storico, sono stati molto significativi l’hip-hop e il black metal, pregni di individualismo. Nel primo caso penso soprattutto a quello africano, nigeriano in particolare, che parla di un malessere molto personale che parte dai ghetti e dalle bidonville: la vita fa schifo, quindi io voglio svoltare facendo soldi in Europa e negli Stati Uniti. La trap italiana non è che finzione rispetto a questo. In Europa è invece il black metal di origine norvegese a rappresentare meglio una realtà dove la qualità della vita rimane alta nonostante il progressivo scivolamento nel lumpenproletariat.

È una musica chiusa su sé stessa, che esprime odio per il genere umano, ma è anche colta. Non c’è adorazione del dio denaro e del successo, ma tuttavia è presente il rifiuto della politica. Queste due forme musicali rappresentano bene l’idea che fare politica è una cosa sbagliata che non serve a niente. Non lo dico in senso critico ma solo narrativo. Adesso però si comincia a sentire il bisogno di tornare in carreggiata: emerge la necessità di uscire da questo individualismo.