«Heimat è uno spazio nel tempo», il ’900 in una storia famigliare
Televisione «Fuori orario» propone stasera (6 novembre, Raitre, ore 01.15) il film di Thomas Heise, tra archivi e memoria collettiva. Le lettere private dei nonni e dei genitori del regista, il passato e il presente in Germania, gli avvenimenti di un secolo, la loro eco oggi
Televisione «Fuori orario» propone stasera (6 novembre, Raitre, ore 01.15) il film di Thomas Heise, tra archivi e memoria collettiva. Le lettere private dei nonni e dei genitori del regista, il passato e il presente in Germania, gli avvenimenti di un secolo, la loro eco oggi
In questi strani giorni di cinema e teatri chiusi, da non perdere è la proposta di Fuori orario stasera – ore 01.15, Raitre, notte tarda come sempre da cui farsi trasportare anche se solo tra le mura casalinghe visto il nuovo lockdown. Il film in questione si chiama Heimat è uno spazio nel tempo (2019), lo ha realizzato Thomas Heise, regista tedesco della scomparsa -Ddr, la Repubblica Democratica tedesca, in Italia non conosciuto se non nel circuito dei festival di ricerca – adesso anche questo azzoppato dallo stop alle sale – che del suo Paese, o meglio di cosa ne è stato ha saputo prima e dopo la «caduta» del Muro cogliere e restituire conflitti, rabbia giovane, frustrazioni e speranze, queste ultime in particolare infrante sul nuovo «muro» invisibile della storia, almeno per chi si aspettava – forse come il regista stesso – la possibilità di costruire una diversa Germania dell’est – lo dice bene nel suo magnifico Material ambientato a Berlino nei giorni della fine della Rdt e del Muro.
ALLA storia tedesca torna anche in questo film, una lunghissima incursione nei decenni attraverso gli archivi personali – diari, lettere, fotografie, documenti – che lo portano a ripercorrere i destini di tre generazioni della sua famiglia tra Vienna, Berlino, Dresda. «Il film è anche una riflessione su di me, o meglio una riflessione pubblica su come vedo le cose, cercando di portare la storia e le storie correlate al termine, non dissolte in riflessioni verbali, ma nel montaggio degli elementi del film … Niente è definitivo o finito» dice Heise.
Che dunque a partire da questa infinitezza della «memoria famigliare» costruisce una riflessione su quanto ha segnato il proprio Paese, e l’Europa tutta: la prima e la seconda guerra mondiale, la questione ebraica, il comunismo, poi l’amore, il lavoro, l’arte, e le speranze e i sogni disillusi di tante donne e uomini nel tempo. Il Tempo, appunto. E quell’«Heimat» intraducibile, il cui senso sfugge anche alle definizioni di appartenenza come «patria» o «luogo natio», e che pure così prepotentemente si fa carico di esprimere il sentimento della storia – e non solo – tedesca. Se invece questa appartenenza fosse proprio, come suggerisce esplicitamente nel suo titolo il regista, il movimento della storia, la fisionomia di eventi grandi realizzati, o meglio compresi, nella voce di chi li ha vissuti, nei paesaggi che raccontano a loro volta altre narrazioni: nel Tempo e nella Storia.
IN BIANCO e nero, con la voce narrante di Heise, Heimat ist ein Raum aus Zeit (il titolo originale) non asseconda la linearità:il tempo si contrae, si espande, i decenni si riflettono gli uni degli altri, gli anni ’60, gli anni ’90; il suo obiettivo non è quello di comporre una trama esaustiva, ma al contrario di lavorare sui vuoti, su quei bordi lungo i quali avviene l’universalità di ogni accadimento.
All’inizio ci sono i nonni di Heise, lui spirito critico contro le pulsioni belliche che porteranno alla Grande Guerra, lei ebrea che studia arte a Vienna, e si troverà ben presto a confrontarsi con l’antisemitismo. Poi i genitori, sono innamorati, le loro vite appaiono tranquille ma la catastrofe incombe. Siamo negli anni Quaranta, gli elenchi delle deportazioni risuonano nelle visioni di case vuote. Il tempo scorre ancora, le lettere di disperazione conducono nei campi di lavoro per «razze miste». Alla fine della guerra i genitori sono entrambi accademici a Berlino est: il padre professore di filosofia è sempre più insofferente all’ideologia della Ddr, la madre scrittrice è invece omologata al partito. Lui fuggirà a ovest, lei denuncerà. In quelle stesse strade, decenni dopo, qualcuno scende da un treno senza consapevolezza degli accadimenti lontani.
MA NULLA di ciò che vediamo asseconda i testi, qualche dettaglio appena, il volto della madre del regista allargato su una vecchia fotografia, rovine industriali, i boschi, le città deserte. È come se il racconto della storia, qui, in questo spazio del tempo di parole e immagini assumesse dei nuovi contorni, una potenza non percepita, da cui affiorano i legami dentro e oltre quel tempo stesso. Passato e presente, la contemporaneità e i suoi fardelli irrisolti.
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