Hegyi, purezza visiva, nuova teologia
Leggere l’arte moderna Quattro saggi di Lóránd Hegyi (raccolti da Aragno) sullo spirituale nell’arte delle avaguardie storiche, astrattiste ma non solo: un’antinomia intellettuale nel cuore della secolarizzazione...
Leggere l’arte moderna Quattro saggi di Lóránd Hegyi (raccolti da Aragno) sullo spirituale nell’arte delle avaguardie storiche, astrattiste ma non solo: un’antinomia intellettuale nel cuore della secolarizzazione...
«A mio avviso ci stiamo approssimando sempre più all’epoca del compositivo consapevole, razionale, presto il pittore sarà orgoglioso di poter spiegare le sue opere in senso costruttivo»: così scriveva Wasilij Kandinskij nella pagina conclusiva de Lo spirituale nell’arte. Era una distinzione esplicita rispetto agli impressionisti e i loro epigoni, i quali «al contrario sono orgogliosi di non sapere spiegare nulla». In questo modo Kandinskij tracciava una linea di demarcazione netta, sistematizzata qualche tempo dopo da Herwarth Walden, il fondatore della rivista «Die Sturm», il quale avrebbe radunato questa avanguardia di artisti «consapevoli» sotto l’etichetta di «espressionisti»: già nel 1913 la grande mostra Erster Deutscher Herbstsalon a Berlino li presentava tutti come un’unica famiglia, che abbracciava gli astrattisti, i cubisti, fino agli espressionisti veri e propri e ai seguaci dell’orfismo.
Se l’opera d’arte ha un contenuto «consapevole» che può essere spiegato, significa che è possibile affrontarla a partire proprio dall’approfondimento di questo suo contenuto razionale: è questo l’approccio che Lóránd Hegyi, storico dell’arte ungherese, propone in una serie di quattro saggi scritti a partire dagli anni ottanta e ora raccolti in un agile e prezioso libretto per l’editore Aragno: L’attrazione della spiritualità nell’arte moderna (pp. 190, euro 15,00). Ci sono poche illustrazioni di opere nel libro ma alla fine della lettura è come se ne avessimo passate in rassegna a decine, perché il percorso che Hegyi compie all’interno del pensiero che le ha generate ce le rende visibili con una chiarezza inedita. Pagina dopo pagina Hegyi agisce stringendo in modo sempre più serrato attraverso la sua scrittura il pensiero, esplicito e implicito, degli artisti fondativi di questo «compositivo consapevole», in particolare Mondrian e Malevic. È un processo di «intellettualizzazione», grazie alla quale l’opera d’arte «si trasforma in un modello intellettuale», alle cui radici Hegyi pone lo scarto radicale operato da Marcel Duchamp.
Alla fine il critico approda a una sintesi, se si vuole inattesa, che dà il titolo alla raccolta: ciò che muove e determina il percorso di questa grande famiglia di artisti è un’«attrazione della spiritualità»; attrazione del resto annunciata da Kandinskij già nel 1912 con il suo celebre libro. Per Hegyi ci troviamo di fronte a una vocazione «teologica» dell’avanguardia, «fonte di redenzione» e chiamata a «rispondere agli autentici interrogativi del tempo». Negli artisti si ritrova «un’adorazione quasi mistica per una “purezza esclusivamente visiva”».
Ed è sbagliato pensare che quest’attrazione funzioni solo nel caso degli artisti più oltranzisticamente votati all’astrazione: tra le pagine del libro incontriamo anche un grande «realista» come Max Beckmann, mentre uno dei saggi più affascinanti prende spunto dall’interpretazione che nel 1925 Wilhelm Worringer aveva fatto del Pino al mare di Carlo Carrà, un’opera del 1921 che, secondo lo storico dell’arte tedesco, «rivelava quella completa dimensionalità dell’esistenza, quella compattezza vissuta dell’essere, alla cui concretizzazione pittorica io non credevo più». L’opera di Carrà rappresentava, per la pulizia della sua composizione, un riaffermazione del «classico eterno», offrendosi come «opera d’arte esperibile con l’intera vitalità del nostro essere».
Gli artisti non lavorano solo per se stessi ma obbediscono a un’altra vocazione, quella di educare il contesto sociale e di creare una nuova consapevolezza culturale diffusa. Come spiega Hegyi le forme astratte ambiscono a diventare «oggetti reali, che modellano un insegnamento estetico e morale. In questo senso, gli oggetti reali sono “solo” modelli paradigmatici, “solo” oggetti dimostrativi pedagogici, che ricevono la propria legittimazione non come opere d’arte autonome, ma come veicoli di trasferimento teorico, dotati di una funzione didattica».
È un tentativo radicale e utopico destinato a scontrarsi nei diversi contesti, o con i diktat propagandistici dei totalitarismi ideologici, o con le non meno totalitarie regole del modello produttivistico. Per questo risuonano emblematiche le circostanze del funerale di Malevic, rievocate nel libro: in una foto si scorge nella parte anteriore del carro funebre il Quadrato nero dipinto sulla pietra. Era il 1935, in pieno stalinismo l’immagine dell’opera più celebre dell’artista viene issata «come icona del suprematismo, “oggetto sacro” dell’astrattismo, nuova religione, e “oggetto di culto” di un piccolo gruppo che rappresentava l’arte astratta e che vedeva l’attività di Malevic come profezia».
Se questa ambizione a travasare il verbo astratto in nuovi modelli sociali si era misurata con inevitabili fallimenti, sul piano della concezione dell’arte l’esperienza maturata in quei primi decenni del Novecento ha rappresentato un punto senza ritorno: il libro nella parte finale trova conferme nell’approfondimento di situazioni di artisti come Lucio Fontana, Yves Klein, l’amatissimo Roman Opalka, Susana Solana, Rachel Whiteread, fino a Günther Uecker, ancora vivente, a cui il libro è dedicato.
Il libro di Hegyi può essere letto come una riflessione di grande coerenza sulla natura dell’oggetto artistico. In una prospettiva storica, è inevitabile mettere in connessione l’emergere di questa potente attrazione della spiritualità con l’eclissi del rapporto con la religione costituita che aveva segnato per secoli il lavoro degli artisti. Un rapporto che, al di là delle opportunità fornite dalla committenza della Chiesa, assegnava all’arte il compito di dar rappresentazione a un bisogno irriducibile della persona, quello del rapporto con la trascendenza. I protagonisti del «compositivo consapevole» hanno raccolto il testimone ribadendo, nel cuore della stagione così marcatamente materialistica che hanno attraversato, quale sia la natura dell’operare artistico.
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