Maarten van Heemskerck, “Veduta del Colosseo con un capitello antico”, 1532-’36, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinett

Una veduta cinquecentesca dei resti perduti del Settizonio e dei palazzi imperiali sul Palatino, conservata nella collezione del Kupferstichkabinett di Berlino, mostra sul margine del foglio – a esplicitare le intenzioni dell’immagine – un motto diffuso nel Rinascimento tra gli estimatori dell’architettura antica: ROMA QVANTA FUIT IPSA RVINA DOCET. La massima guadagnò enorme popolarità nel 1540 campeggiando sul frontespizio delle Antiquità di Roma di Sebastiano Serlio, con cui una larga selezione di rilievi e ricostruzioni prodotti dagli architetti italiani del primo Cinquecento fu divulgata in tutta Europa. Il disegno è parte di uno dei due album di antichità romane tradizionalmente assegnati, nella collezione berlinese, a Marteen van Heemskerck, e se oggi l’attribuzione di questo specifico foglio è caduta, il motto latino – verosimilmente vergato da un seguace – resta parlante dello spirito che dovette animare le esplorazioni dell’Urbe di quel pittore venuto dal Nord, all’indomani delle devastazioni del Sacco, che del suo paesaggio avevano accentuato, se possibile, il potente aspetto rovinoso.
Più precisamente Heemskerck, che era olandese, fu a Roma tra il 1532 e il 1537. Il soggiorno è testimoniato da varie fonti, eppure non ne rimane documentazione diretta: il solo segno del suo passaggio, quantomai suggestivo, è la firma incisa assieme al connazionale Herman Posthumus su una delle volte della Domus Aurea, e facilmente li si immagina calarsi nel sottosuolo, come tanti prima di loro, mentre aiutano con le torce lo sguardo in cerca di pitture antiche. Restano comunque circa duecento disegni di sua mano, bellissimi, a dar conto di tale instancabile impresa. La gran parte di essi – 94 fogli, di cui sono impiegati sia il recto che il verso – sono posseduti proprio dal Kupferstichkabinett e costituiscono il nucleo della mostra in corso in quella sede fino al 4 agosto: Faszination Rom. Maarten van Heemskerck zeichnet die Stadt, a cura di Christien Melzer, Hans-Ulrich Kessler e Tatjana Bartsch. Quest’ultima, di base alla Bibliotheca Hertziana, che è luogo di elezione degli studi sul Rinascimento romano, negli anni si è dedicata a una più sistematica comprensione dell’artista e della sua opera grafica con articoli, atti di convegni e una corposa monografia pubblicata da Hirmer nel 2019, divenuta inevitabilmente di riferimento. Su queste solide basi poggia l’esposizione, che si avvantaggia di una ricorrenza, ovvero i 450 anni dalla morte di Heemskerck, e nell’autunno sarà seguita da iniziative analoghe a Haarlem e Alkmaar.
La filologia dei codici disegni è una componente di rilievo nella mostra: per esempio, nell’affrontare le questioni attributive già accennate che riguardano il secondo album, di natura composita e solo in parte assegnabile all’olandese. In ciò assiste il saggio di Francesca Mattei, sull’altro autore principale di questa raccolta: il cosiddetto «Anonimo Mantovano A», già isolato nel 1913 da due pionieri dello studio dei codici antiquari rinascimentali come Christian Hülsen e Hermann Egger, curatori della prima edizione facsimilare degli stessi disegni; in mostra l’album è aperto, a rotazione, su pagine diverse. Ben diverso è il trattamento dell’altro taccuino, interamente autografo, i cui fogli sono stati di recente liberati da una rilegatura spuria, consentendo lo scenografico allestimento di queste settimane: un poligono di doppie lastre di vetro contenenti i fogli liberi da passe-partout, collocato al centro dello spazio espositivo per orientare la visita, di modo che a ogni gruppo corrispondano, sulle pareti retrostanti, dipinti, incisioni, calchi di statue antiche, o altri disegni ancora, che producono risonanze coi vari temi; al centro, un gesso del Torso del Belvedere rende plastica l’attrazione di Heemskerck per la condizione mutila delle statue recuperate dal sottosuolo di Roma, che si deduce da numerosi schizzi.
Le sezioni seguono appunto accostamenti di soggetti affini o strategie di rappresentazione condivise da più rilievi, inevitabilmente escludendo dalla narrazione le facce retrostanti di ciascun foglio (per esempio le riproduzioni, non comuni, di facciate trionfali di palazzo progettate da Raffaello e Antonio da Sangallo il Giovane), sebbene non manchino in altre postazioni esempi dell’interazione tra recto e verso. Altro prezzo pagato da questa pur ingegnosa risposta ai problemi museografici posti dai codici di grafica, è l’impossibilità di apprezzare alcune associazioni visive originariamente proposte dal susseguirsi delle doppie pagine. Ma nel catalogo ciò è compensato da un’inedita ricostruzione di Bartsch della struttura originale del taccuino, basata su evidenze codicologiche, e in modo più accessibile da un brillante – e abbordabile – facsimile, che è un complemento fondamentale alla pubblicazione, sebbene edito separatamente (Das Römische Zeichnungsbuch, Hatje Cantz, 2024).
Sfogliandolo, quando si arriva alle vedute, in cui la topografia mossa di Roma si punteggia dei profili appena tratteggiati ma ben riconoscibili dei monumenti, a contrasto con i dettagli ravvicinati dei frammenti o gli interni affollati di marmi che le precedono, colpisce ancora di più il raggio amplissimo dell’inquadratura che sfrutta il formato insolitamente orizzontale della pagina. È il saggio di Vitale Zanchettin a mettere ben in luce questa intelligenza nell’uso delle convenzioni di rappresentazione, seguendo la suggestione che tale sensibilità per il paesaggio rarefatto della città sia stata accresciuta dalla visita alle altissime architetture vaticane di Donato Bramante.
L’affondo sui disegni è accostato ad altre sezioni che, canonicamente, vanno dalla formazione nella bottega di Jan van Scorel al riuso immediato in pittura dei motivi avidamente collezionati da Heemskerck nei propri taccuini – proponendo uno spostamento al suo catalogo da quello del sodale Posthumus per uno dei visionari paesaggi di rovine in cui entrambi si specializzarono –, quindi alle incisioni derivate dagli stessi fogli, sino alla fortuna settecentesca.
La più intensa resta comunque quella orchestrata intorno agli album, per come consente di seguire l’artista nel suo vagabondare quotidiano attraverso il disabitato di Roma, da rovina a rovina, ma anche da un cortile di palazzo all’altro, testimone degli albori del collezionismo europeo, o ancora ai piedi della San Pietro incompiuta, trattata nelle sue prospettive al pari dei diruti complessi imperiali, come ha scritto in pagine di magistrale interpretazione Christof Thoenes. In fondo, già i suoi studi mostravano come, nelle invenzioni di Heemskerck, la formulazione di un nuovo genere, che esaltava la rovina senza ambire a ricostruirla, si combinasse a un’efficacissima orchestrazione dell’immagine, resa possibile dalle libertà del disegno. Averlo dimostrato in modo tanto seduttivo, così da emancipare questi fogli dalla mera funzione documentaria, è tra i meriti maggiori dell’esposizione berlinese.