Heddi Goodrich, perdersi nella lingua dell’altro per scoprire la propria essenza
L'intervista Parla l’autrice de «L’americana» e «Perduti nei Quartieri Spagnoli», editi da Giunti, che partecipa domani a Incroci di civiltà a Venezia. Dalla Napoli dei Quartieri Spagnoli a Castellammare, la geografia emotiva di un’indagine narrativa interiore. «Dell’inglese conosco ogni sfumatura, come il tono adatto ad un dialogo accademico. Ma è scrivendo in italiano che mi sento più libera, che posso esprimere qualcosa di davvero intimo»
L'intervista Parla l’autrice de «L’americana» e «Perduti nei Quartieri Spagnoli», editi da Giunti, che partecipa domani a Incroci di civiltà a Venezia. Dalla Napoli dei Quartieri Spagnoli a Castellammare, la geografia emotiva di un’indagine narrativa interiore. «Dell’inglese conosco ogni sfumatura, come il tono adatto ad un dialogo accademico. Ma è scrivendo in italiano che mi sento più libera, che posso esprimere qualcosa di davvero intimo»
«Napoli non la capivo, non veramente. Mi mancava una visione d’insieme, un inquadramento più ampio, una vera mappa. In questo senso, Napoli non era un po’ come i Quartieri stessi? Soltanto in apparenza facile da districare, ma in realtà dotata di una logica misteriosa che la rendeva una matassa impossibile da sbrogliare. L’amore non bastava». Quando, due anni or sono, Heddi Goodrich ha pubblicato il suo primo romanzo, Perduti nei Quartieri Spagnoli (Giunti), il senso della sua ricerca era annunciato da quell’interrogativo, dalla volontà della giovane protagonista – Heddi come lei, a rimarcare lo spunto almeno inizialmente autobiografico della vicenda – di farsi strada dentro un mistero cui si sentiva inspiegabilmente di appartenere.
Un’indagine che la scrittrice statunitense, da tempo residente in Nuova Zelanda, prosegue ora con L’americana (Giunti, pp. 348, euro 18), spostando la scena a Castellammare e presentando, attraverso il personaggio di Frida, un altro aspetto del suo affascinante corpo a corpo con questa parte d’Italia che ormai le appartiene. Originaria di Washington, Goodrich si è infatti laureata all’Orientale di Napoli, città dove ha vissuto qualche anno prima di trasferirsi ad Auckland. La scrittrice, che ha coniato per le sue storie, composte in italiano, una lingua chiara che ama però farsi travolgere in modo seducente dalle emozioni, è tra gli ospiti del Festival Internazionale di Letteratura Incroci di civiltà che si svolge a Venezia fino a sabato: l’incontro con Goodrich è in programma domani alle 19 presso il Fondaco dei Tedeschi.
La protagonista di «Perduti nei Quartieri Spagnoli» afferma che il suo amore non basta per conoscere fino in fondo Napoli e il mistero che sembra racchiudere, l’«altro» che la città rappresenta ai suoi occhi e che vorrebbe incontrare. A cosa dovrà fare ricorso?
In quel libro mi sono interrogata sulla nostra capacità di decifrare un mistero, di comprenderlo fino in fondo, si trattasse di un essere umano, di qualcuno che amiamo, o di un luogo decisamente «misterioso» come Napoli. Allo stesso modo, ne L’americana ci sono due elementi con cui i personaggi si devono misurare: il Monte Faito e le acque che si stagliano di fronte a Castellammare, che ai miei occhi incarnano rispettivamente il principio «maschile» e quello «femminile». In entrambe le storie ci si rende conto che non è sufficiente amare qualcosa o qualcuno per capirlo davvero. Si deve far ricorso a tutte le proprie capacità intellettive ed emotive in questo tentativo, ma l’esito non è scontato. E comunque è il lettore che deve finire il lavoro per suo conto.
Mentre per lei questa indagine intima sembra essere passata attraverso la lingua: scegliere di scrivere in italiano le ha offerto la possibilità di «diventare» in qualche modo la Napoli che tanto ama?
Senza dubbio. Per me avviene per il tramite delle parole ciò che per altri può accadere grazie alla musica, alla danza, all’arte. Per questa via sento di avventurarmi in un percorso di ricerca a un tempo psicologico e spirituale: si esprime così il mio tentativo di capire il mondo. Credo inoltre che le parole siano la forma d’arte più democratica perché anche se non siamo tutti pittori o musicisti, usiamo però tutti le parole per esplorare nella nostra psiche come in ciò che ci circonda.
Ha spiegato più volte che nella sua lingua madre, l’inglese, non avrebbe saputo esprimere tutte le emozioni e i sentimenti che emergono dai suoi romanzi. Come è avvenuto?
Devo confessare che non smetto di interrogarmi su questa cosa, visto che non la capisco fino in fondo neppure io. Sono un’insegnante di inglese, faccio la traduttrice, conosco questa lingua in tutte le sue sfumature e mi dovrebbe essere più facile esprimermi attraverso di essa, eppure è in un’altra lingua che ho saputo raccontare e inventare delle storie che toccano delle corde profonde di me, che esplorano i misteri dei luoghi e degli esseri umani. Come se esprimendomi in inglese temessi di incappare nelle convenzioni, di dover tenere conto di aspettative precise. In inglese so scegliere la forma migliore per scrivere una mail o adottare il tono adatto ad un dialogo accademico, contesti dove so cosa ci si attende da me, mentre in italiano mi sento più libera, non temo di esprimere qualcosa di più intimo. È paradossale ma con l’italiano provo più spontaneità, maggiore naturalezza sia per quello che scrivo che per come lo faccio.
Nel suo primo romanzo l’incontro con la città avviene attraverso quella sorta di vetrina delle contraddizioni locali che sono i Quartieri Spagnoli, a un tempo fantastici e miserabili, emozionanti e decadenti. I Quartieri le hanno offerto una chiave narrativa per avvicinarsi a Napoli?
La cosa che mi ha colpito la prima volta che ho attraversato i Quartieri Spagnoli, e che mi colpisce ancora oggi, è che sembra una zona facile da percorrere, dove non ci sono né vicoli ciechi degni di un labirinto né strade tortuose dove ci si può perdere facilmente. Come la vita, i Quartieri danno a prima vista l’impressione di qualcosa di tranquillo e facile da attraversare, anche se tutti sappiamo che in realtà non è così. Malgrado il loro aspetto, per quelle vie strette e regolari, proprio come nella vita, ci si può perdere. E forse lo si deve fare. Perché proprio come nella vita solo perdendoci possiamo scoprire la nostra vera essenza.
Se in quel romanzo lo sguardo dei protagonisti è rivolto alla scoperta della città, a Castellammare di Stabia, dove si svolge invece «L’americana», è il mare a costituire il mistero con il quale i personaggi cercano di misurarsi. Ma invano…
Verso la fine del romanzo Frida, la protagonista, riesce a tuffarsi in quelle acque che ha scrutato a lungo con mille interrogativi nell’animo. Tocca con mano il mistero della femminilità che a quel punto le sembra finalmente di comprendere, ma non arriva al fondo degli abissi, non riesce a raggiungere la profondità di quel mare chele resterà perciò almeno in parte sconosciuto. Questo mentre dal largo arrivano dei suoni misteriosi e l’immagine delle balene che nuotano. Un po’ come in un sogno che non si può analizzare fino in fondo, pena il rischio che nell’utilizzare le parole per descriverlo lo si veda perdere ogni significato, lo si condanni a svanire senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Il linguaggio ci serve e anche molto, ma cercare di spiegare tutto con le parole rischia di risultare inutile, di far scomparire dal nostro orizzonte quel mistero che stavamo tentando con grande sforzo di comprendere appieno.
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