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Hecho en Cuba, nella grande epoca rivoluzionaria

Hecho en Cuba, nella grande epoca rivoluzionaria

Mostra Al Museo del cinema di Torino la più importante esposizione dell'anno, la collezione Bardellotto dei "Carteles"

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 2 aprile 2016

Novembre 2013. Pordenone è fatta di due anime opposte che si esaltano a vicenda. L’anima placida della provincia impigrisce al tavolo di un bar, centellinando uno spritz, due euro o poco più, servito in un caffè storico o in un locale arredato standard come tanti in tante città. Il passaggio quotidiano tra le case affrescate di corso Vittorio Emanuele, capolavori di architetture e decori veneziani, diventa, il sabato e la domenica, passeggio fatto di occhiate, commenti sottovoce, sguardi alle vetrine. Trattorie e ristoranti offrono cucina robusta, vino di conseguenza e arredi d’epoca, che invitano a prendersela comoda. L’anima culturale respira in un calendario di eventi che si sono guadagnati la scena europea: Pordenonelegge, Giornate del Cinema Muto, Dedica Festival, Pordenone Blues Festival… In quel novembre del 2013 non è stata ancora aperta la Galleria Comunale Harry Bertola, ma appena dietro il centro storico spuntano gli Spazi Espositivi Bertossi, oltre settecento metri quadri distribuiti tra le sette sale di un edificio scolastico del 1925. ‘Miracuba! L’arte del manifesto cubano dal 1959’, richiama il grande pannello azzurro all’ingresso, da cui sorride il ritratto di Camillo Cienfuegos. Una mostra, il motivo per cui sei arrivato sin qui. È lunedì, giorno di chiusura. Ma le porte si aprono ugualmente, e ti ritrovi a camminare solitario dentro le immagini di una rivoluzione comunista che per oltre mezzo secolo ha cercato con tutte le sue forze di andare oltre l’utopia, pagando prezzi altissimi. Le pareti degli Spazi Bertossi sono sfondi che mostrano i segni dell’abbandono, colori sbiaditi e stratificati l’uno sull’altro, intonaco dietro cui occhieggiano i mattoni. Chi ha deciso di farne scenografie narranti ha voluto lasciarli così, solo qualche intervento strettamente necessario, affidando all’arte il compito di ridare loro luce e vita. È quanto fanno i manifesti, i carteles, di ¡Mira Cuba!. Nessuna galleria asettica avrebbe saputo restituire il senso del lavoro di tanti artisti che hanno dedicato la loro esistenza a impugnare pennelli e creatività per continuare la rivoluzione finita la battaglia, per affermare il dovere di essere solidali con altri popoli oppressi, per creare responsabilità sociale e partecipazione, per diffondere sull’isola il significato e le forme della parola cultura. La tua cronaca, al ritorno, aveva annotato «La storia del manifesto cubano, il ‘cartel’, è fatta di tre acronimi e di una manciata di lettere. DOR sta per Departamento de Orientación Revolucionaria, ICAIC per Instituto Cubano de Arte e Industria Cinematográficos; OSPAAAL per Organización de Solidaridad de los Pueblos de Asia, África y America Latina. Il primo gennaio del ’59, l’Avana e l’isola vennero tappezzate con un cartel che festeggiava la vittoria. Fu quel cartel a indicare come si poteva, d’ora in poi, comunicare alla collettività i progetti da costruire, i passi da compiere, le fatiche e gli sforzi da sostenere, le necessità cui rispondere. Nelle minuscole stanze del DOR, dell’ICAIC, dell’OSPAAAL, Félix Beltran, Raúl Martinez, ‘Niko’ Antonio Pérez Gonzalez, Eduardo Muñoz Bach, Olivio Martinez, Antonio Reboiro, Alfredo Rostgaard e decine di altri nomi disegnavano avendo sovente ‘contro’ la mancanza di carta su cui dar vita alle idee; l’assenza improvvisa e prolungata di alcuni colori nei laboratori di serigrafia o di stampa in offset, che imponevano il cambio delle cromie; il clima tropicale, nemico dell’asciugatura e a volte talmente spietato da condannare i tecnici a ricominciare daccapo. Ma Félix, Raúl, Niko, Eduardo, Olivio, Antonio, Alfredo e i tanti altri, lontani per distanza fisica e mentale dagli atelier di Parigi e New York, affrontavano tutto questo e altro ancora senza isterie da star della matita o del pennello…». Avevi subito abbandonato l’ordine espositivo, lasciandoti portar via dalla forza delle immagini. Nella sezione dell’OSPAAAL il Che secondo Olivio Martinez, Rafael Enriquez Vega, Helena Serrano, Alfredo Rostgaard; il Nixon di Luis Balaguer, cranio aperto e, dentro il cranio, la foto di un villaggio vietnamita raso al suolo; ancora Rostgaard con il suo Cristo guerrillero, aureola intorno alla testa e fucile in spalla; il Che a cavallo tra le montagne della Sierra, frutto della personale Pop Art di René Mederos; i cappelli conici dei contadini del Vietnam visti dall’alto, capolavoro grafico di Ernesto Padrón Blanco. Poi le campagne sociali del DOR: il cartel di Félix Beltran dove la scritta ‘Clik’, gialla su fondo blu, esorta a non sprecare luce; il rubinetto dell’acqua messo all’in su e lo slogan ‘Ahorrala’, ‘risparmiala’, di Faustino Pérez Organero; il muso di una motocicletta, mezzo di spostamento in uso alla Brigada Sanitaria, dalla mano di Daysi Garcia. Novembre 2014. Alberto Barbera, direttore del Museo del cinema di Torino, apre una ad una, con crescente stupore, le grandi cartelle sulla sua scrivania. E fatica a credere alla bellezza di ciò che si ritrova sotto gli occhi. Di fronte a lui Luigino Bardellotto da San Donà di Piave, l’artefice della maggior collezione in Europa di grafica cubana, la mente e il cuore di ¡Mira Cuba!. Lo avevi incontrato a Pordenone e gli avevi chiesto quando, come e perché tutto fosse cominciato. Nel 1998, da turista, era stata la risposta. Senza nulla conoscere, armato della sola certezza di voler stare lontano dai beach resort, dai sorrisi interessati delle jineteras; dalle memorie della Bodeguita del Medio, del Floridita, dell’Hotel Nacional, di Ernest Hemigway, ormai consegnate al turismo. Luigi cerca Cuba, e Cuba si fa trovare dentro una libreria nel centro dell’Avana, in Calle Obispo «Era il 2005, e quella volta avevo deciso di portarmi a casa un souvenir diverso, in sintonia con le mie idee. Andai sul classico: un cartel del Che. In un viaggio successivo acquistai altri pezzi, una decina. All’Avana c’era una galleria d’arte, oggi chiusa, La casona, sulla Plaça Vieja. Il proprietario rimase sorpreso dalla particolarità delle mie scelte, e mi propose di approfondire il percorso che avevo iniziato in modo involontario. Così, anno dopo anno, ho conosciuto coloro che avevano realizzato quelle e tante altre opere, le istituzioni che li avevano radunati, la storia personale degli artisti. Il primo, cui mi lega tuttora un’amicizia profonda, è stato Olivio Martinez, autore, fra i suoi innumerevoli lavori, dei carteles per la Zafra, la campagna promossa agli inizi degli anni ’70 per il taglio di dieci milioni di canne da zucchero ». La riscoperta di nomi celebri della grafica cubana è paragonabile a quella di Ray Cooder e Wim Wenders per i musicisti di Buena Vista Social Club? «C’è somiglianza, ma penso rappresenti una vicenda molto diversa. Alcuni artisti continuano a credere in Cuba, altri avvertono un certo disincanto, altri ancora hanno scelto Miami o il mondo occidentale. La storia del cartel e dei suoi protagonisti è sempre e comunque una storia politica». Il capitolo ICAIC, l’Instituto Cubano de Arte e Industria Cinematográficos, nel novembre 2014 approda a Torino e alla scrivania di Barbera; diventa idea nelle parole di Bardellotto: fare del Museo sotto la Mole Antonelliana il luogo di una mostra pienamente autorizzata a definirsi unica, che abbia come protagonista l’arte cubana del cartel in tema di cinema da tutto il mondo. Quattro febbraio 2016. Antonio Reboiro per Hara Kiri, di Masaki Kobayashi; Eduardo Muñoz Bach per Las tribulaciones de un chino en China (1966), con Jean Paul Belmondo; René Azcui per Besos rubados di François Truffaut; Niko per El medico de la mutual, con Alberto Sordi e Il caso Mattei di Francesco Rosi; Rafael Morante per Un maledetto imbroglio, di Pietro Germi; Ernesto Ferran Fernández per Fresa y chocolate, di Tomás Guttiérez Alea; Julio Eloy Mesa per El deporte predilecto de l’hombre, di Howard Hawks…. Sui muri che assecondano il disegno della rampa elicoidale, oltre duecento carteles si trasformano in altrettanti fotogrammi di carta. Ciascuno di essi interpreta, nella sintesi di un linguaggio grafico che non ha uguali, il senso e l’essenza di pellicole diventate storia della Settima Arte, o di altre mai uscite dai confini in cui sono nate. Luigino Bardellotto guarda la coda che sale i gradoni della rampa e si allunga. Guarda la ricostruzione della facciata di un palazzotto barocco dell’Avana, che troneggia nell’Aula del Tempio. Guarda il Charlie Chaplin di Eduardo Muñoz Bach dentro lo spazio di un grande manifesto che, scritta rossa e sottotitolo blu, recita Hecho en Cuba. Il cinema nella grafica cubana. Mole Antonelliana, fino al 29 agosto. Una mostra definita da Alberto Barbera ‘L’evento più importante del Museo per il 2016; da interpretare e comprendere andando oltre l’impatto emotivo. Ha scritto lo sceneggiatore e giornalista cubano Leonardo Padula Fuentes «Noi bambini degli anni ’60 facemmo la rara esperienza di vedere sullo schermo qualche produzione nordamericana, non troppe pellicole sovietiche, ma soprattutto, a un ritmo di due film alla settimana, strane proposte dirette da Akira Kurosawa, Andrzej Waida, Vittorio De Sica, François Truffaut o Alain Resnais. Anche se il massimo ce lo offrivano alcune piccanti (per gli standard di allora) commedie italo – francesi, il cui protagonista era quasi sempre Alberto Sordi… In una società che correva in fretta verso l’omogeneità, l’istituzionalizzazione e il controllo assoluto dei mezzi di diffusione da parte dello Stato, risulta curioso che il manifesto cinematografico sia riuscito a crearsi una specie di isola propria». Gli abitanti di quell’isola si davano appuntamento nella sala di proiezione dell’ICAIC, visionavano il film e poi avviavano la realizzazione del bozzetto: prima tappa di un percorso che implicava il saper maneggiare un’altra arte, quella di arrangiarsi, ben conosciuta, lo si è scritto più su, anche dai grafici del DOR e dell’OSPAAAL. Un esempio sarà sufficiente. Nel 1964, Antonio Reboiro decide di rappresentare Hara Kiri, del regista Masaki Kobayashi, attraverso una macchia di sangue a forma di stella e i caratteri del testo disegnati come canne di bambù. Il rosso, colore protagonista, non è in quel periodo reperibile. Reboiro e il tipografo, allora, lo creaano grazie a un impasto di farina di mais e mercurocromo. Inerpicandosi con la dovuta lentezza, la rampa elicoidale diventa una galleria delle meraviglie. René Azcui firma Besos rubados di François Truffaut con il volto solarizzato di una donna, le labbra vermiglie che spiccano sul bianco. Lo stesso Reboiro rimanda all’epoca (e al ritratto) di William Shakespeare, nella sua interpretazione de La bisbetica domata, regia di Franco Zeffirelli. La ragazza cappello in testa e fiori che la circondano, omaggio e allusione a Gauguin, è la Lucia ritratta da Raùl Martinez, protagonista dell’omonimo lungometraggio cubano di Umberto Solás. Pare di sentirlo, secco e spietato, il rumore del martello di un giudice mentre si abbatte sul titolo del film di Giuliano Montaldo Sacco e Vanzetti. A un Cristo laico e sereno somiglia il Che di Alfredo Rostgaard, protagonista di Hasta la victoria siempre, pellicola di Santiago Álavarez. E fa sorridere il relativo bozzetto, dove il finto testo, ritagliato da un giornale francese, afferma ‘Catholique vous etes catholique’. All’ICAIC passa sullo schermo il cinema dei Paesi graditi alla rivoluzione. Una parte non piccola dal mondo, cui i creativi guardano per trovare ispirazione. Il super prolifico Bach attinge dalla fucina grafica dell’Est quando mette su carta Tony, te has vuelto loco delle cecoslovacche Drahomira Královà e Vera Plivová Simková. Niko prende a prestito le strip americane di Superman con Il caso Mattei e conferisce un ironico sapore liberty a Celos estilo italiano (Dramma della gelosia, tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola. Nessun furto, nessuna copiatura. E invece la capacità di assimilare e scompigliare i canoni estetici altrui, fino a ottenere qualcosa di inimitabile. Per decenni la gente di Cuba ha scelto quale film andare a vedere facendo ruotare i manifesti al riparo dei paraguas, gli ombrelli metallici piantati nel selciato delle vie; oppure fermandosi ad ammirare i poster su avenidas e piazze. I carteles sono divenuti decorazioni delle stanze di casa, macchie di colore sulle macchie di umidità, souvenir ambito dalla gente del cinema e dai giornalisti stranieri. A centinaia, bozzetti compresi, sono andati perduti, hanno dormito nel buio delle cantine e dei cassetti, sono stati dimenticati e svalutati. Poi l’arrivo dei mercanti d’arte, armati di dollari e in caccia di ghiotti bocconi; capaci di ottimi affari, ma privi di cultura e passione. Hecho en Cuba è l’abbraccio di Luigino Bardellotto all’isola, il suo inchino a chi ha regalato la propria grandezza artistica al futuro di un popolo. Il cartel che nella notte del primo gennaio 1959 venne affisso nel centro dell’Avana, titolo 26 de julio, lo disegnò Eladio Rivadulla e fu stampato in cento copie. Ne incontrerete una salendo la rampa elicoidale, Aula del Tempio, Museo del cinema di Torino.

BOX

La mostra

Hecho en Cuba. Il cinema nella grafica cubana

Manifesti dalla Collezione Bardellotto

Torino, Museo del Cinema, Mole Antonelliana

Fino al 29 agosto

Per informazioni su biglietti, visite guidate, laboratori didattici

museocinema.it

Il catalogo

Silvana Editoriale, pp. 256, € 32

Le riproduzioni delle opere in mostra sono precedute da una serie di brevi ed esaurienti saggi. Ai colori dei carteles si aggiunge il bianco e nero delle foto che ritraggono alcuni autori. Ottime sia la carta di stampa che la resa qualitativa.

 

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