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«Haze», nuove forme dalla foschia dell’inquietudine

«Haze», nuove forme dalla foschia dell’inquietudinePala Pothupitiye, part. cartografia 2017 (ph Shivani Gupta)

La mostra «Contemporary Art From South Asia», esposizione inaugurale della Fondazione Elpis di Milano, fino al 5 marzo

Pubblicato più di un anno faEdizione del 14 gennaio 2023

«Nella nebbia assolata delle languide ore, quale visione grandiosa prende forma nell’azzurro del cielo!». Tagore usa il termine «haze», nella poesia I am Restless, per parlare del suo stato d’inquietudine, della sete di cose lontane, dell’impazienza, del sentirsi «straniero in una terra straniera» e «vagabondo nel mio cuore». La nebbia/foschia che nutre le sue parole porta con sé anche un alone di mistero e l’imprevedibilità della sorpresa, tutte possibili chiavi di lettura di Haze. Contemporary Art From South Asia (a cura di HH Art Spaces e Mario D’Souza), mostra inaugurale della Fondazione Elpis di Milano (fino al 5 marzo 2023).

La foschia può indicare «tossicità e magia», come sottolinea Bruno Barsanti, direttore della fondazione costituita dall’imprenditrice e collezionista Marina Nissim, ma è fondamentalmente l’espressione di un presente consapevole in cui vivere è di per sé una forma di resistenza. Anche il ruolo dell’artista implica un’assunzione di responsabilità, declinata da artiste e artisti provenienti da India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka: Nikhil Chopra, Bani Abidi, Madhu Das, Kedar Dhondu, Pranay Dutta, Avian D’Souza, Madhavi Gore, Shivani Gupta, Munir Kabani, Sahil Naik, Yasmin Jahan Nupur, Soumitrimayee Paital, Amol Patil, Pala Pothupitiye, Fazal Rizvi, Joydeb Roaja, Vineha Sharma, Divyesh Undaviya, Diptej Vernekar e Romain Loustau (unico europeo del gruppo). Tra loro anche l’artista e attivista pakistana Lala Rukh (1948-2017) con le fotografie North Sea (A) & (Z) (1994) che inquadrano segmenti di oceano dalla superficie increspata.

Dighe

L’acqua (fiume, mare, ghiaccio, gocce, nebbia) è un altro fil rouge di quest’esposizione che orienta le riflessioni verso tematiche urgenti di denuncia socio-politica e analisi ecologico-ambientale, come l’installazione All is Water, and to Water We Must Return (2021) di Sahil Naik che porta alla luce la storia del villaggio di Kurdi e dell’abbandono forzato da parte dei tremila abitanti causata dalla costruzione della diga di Selaulim che lo ha sommerso. Dal ’78 avviene un fenomeno che ha del miracoloso: il villaggio riaffiora per un solo mese l’anno, durante il quale gli abitanti tornano ad abitarlo. Una ciclica apparizione che, a causa dei cambiamenti climatici degli ultimi trent’anni, rischia di sparire irreversibilmente. «La costruzione di dighe crebbe d’importanza fino a diventare sinonimo di costruzione della Nazione.

Tutto quell’entusiasmo sarebbe stato, da solo, una ragione sufficiente per insospettirsi. Non solo costruivano nuove dighe e nuovi sistemi di irrigazione, ma assumevano anche il controllo di piccoli sistemi tradizionali gestisti per millenni dalle comunità dei villaggi, riducendoli all’atrofia», scrive Arundhati Roy in La fine delle illusioni. La scrittrice e ambientalista sostiene che «Le Grandi Dighe stanno allo ‘Sviluppo’ di una nazione come le Bombe Atomiche al suo Arsenale Militare. In entrambi i casi si tratta di strumenti di distruzione di massa, usati dal Governo per controllare il suo popolo». La «civiltà che si rivolta contro se stessa» in cui è interrotta «la comprensione fra gli esseri umani e il pianeta in cui vivono», scrive Roy, è centrale anche in altre opere esposte, tra cui Beneath a Steel Sky (2019) di Pranay Dutta ispiratoall’omonimo videogame distopico in cui viene formulata l’ipotesi di un futuro post-apocalittico nel quale l’acqua si raccoglierà solo dalle nuvole.

Sonorità
Invece, il pakistano Fazal Rizvi, nell’installazione visiva e sonora Seeking Sanjeevani (2022), mette in scena la propria frustrazione nel non essere riuscito a registrare i suoni dei ghiacciai del Karakorum. L’artista adotta il fallimento dei mezzi tecnologici ribaltandone il senso, quindi esponendo solo le registrazioni accidentali prodotte dal cellulare che aveva in tasca nell’estate 2020, quando si recò sulla catena montuosa a nord-est dell’Himalaya, insieme a diapositive astratte bianche e ad una sorta di poema dattiloscritto (o racconto epistolare o magari un memoir), nascosto o svelato attraverso il tessuto chiaro delle tende.

Dalla solitudine delle alte quote al delirio umano di Bombay/Mumbai con l’opera di Divyesh Undaviya Greys Are to Be Listened; Are to Be Felt (2022), nello spazio esterno dell’ex lavanderia industriale ottocentesca ristrutturata da Giovanna Latis, rappresentazione concettuale della megalopoli che ha dato i natali a Salman Rushdie che così la descrive in L’ultimo sospiro del moro: «Era un oceano di storie; tutti eravamo i suoi narratori, e parlavamo tutti insieme». Nell’installazione di Undaviya centinaia di listelli di legno sono tenute insieme da una cinghia tirante da cui emergono brandelli di abiti o scarpe. Ancora affioramenti tra letteratura e arte visiva con la citazione di Anita Nair nel racconto mitologico della nascita di Sri Lanka (La mia magica India): «Non appena l’uccello se ne andò, Vayu soffiò verso Sumeru una serie di venti fortissimi. Erano talmente potenti che la cima saltò via, cadde nel mare e divenne un’isola. Oggi quell’isola è nota con il nome di Sri Lanka».

Nuove forme

Nelle cartografie Mannar Map, Kokkilai, Pallampiddi Map e Southasia Himal (2017), l’artista cingalese Pala Pothupitiye affronta i temi della fragilità e dell’incertezza identitaria, dei confini geo-politici e della religione, citando la violenza degli atti terroristici ricorrenti nel suo paese con la raffigurazione della testa del leone (presente anche nella bandiera nazionale), simbolo del gruppo etnico dei Sinhala che ha perpetrato il genocidio di migliaia di Tamil. Nella forma stessa dell’animale c’è anche la memoria della ritualità delle maschere tradizionali che la sua famiglia di artisti-artigiani rituali realizza da generazioni. Un altro manifesto politico è rappresentato dai disegni a penna su carta della serie Generation Wish Yielding Tress and Atomic Tree (2020) di Joydeb Roaja, appartenente all’etnia Tripura, una delle undici stanziate da secoli sulle colline di Chittagong Hill Tracts, nella terra al confine tra Bangladesh sud-orientale e Birmania. L’artista rende omaggio alla resistenza delle donne, trattandosi di una società matriarcale, raffigurandole nello svolgimento delle loro attività quotidiane che includono la difesa dei territori contro gli attacchi militari. Al tema della tradizione tra simbolismo e misticismo si relaziona, invece, Vineha Sharma in Transmigration – II (2018) che nel dipingere su carta migliaia di figure umane implicate in azioni diverse, cita la stilizzazione iconografica delle pitture di etnie indigene come i Warli, nell’area di confine tra Maharashtra e Gujarat, le cui case di fango sono decorate da meravigliosi disegni bianchi come pagine di storie narrate. Ancora spiritualità e bianco nell’opera Spiritual Machine (2022) di Diptej Vernekar con gli ex voto di cera, oggetti di devozione ma anche prodotti della commercializzazione della fede in tutte le religioni. Ma il non visibile non appartiene solo alla sfera religiosa, nella serie Work(ers) (2016) il fotografo Munir Kabani rende protagonista le figure degli operai impiegati nella costruzione dei nuovi immobili della speculazione edilizia, inquadrandone tute e altri indumenti da loro lasciati sul posto alla fine dell’orario di lavoro: presenze fantomatiche all’interno di architetture vuote.

Site for Subodh, in particolare, ne è un iconico «monumento» che anticipa l’opera del notissimo artista indiano Subodh Gupta (da cui il titolo dell’immagine fotografica) che i proprietari collocheranno proprio lì quando l’appartamento sarà finito. Memoria di un accadimento, del resto, sono pure gli abiti indossati da Nikhil Chopra e Romain Loustau (fondatori con Madhavi Gore del collettivo HH Art Spaces, piattaforma per le arti nell’Asia del sud che ha firmato la co-curatela di questa mostra) nella performance The Rock Needs No Water and the Island Never Cries, After a Song by Paul Simon and Art Garfunkel all’opening della mostra Haze. Nel video postato dalla Fondazione Elpis sui social è documentato il processo creativo di Chopra (vestito di bianco) e di Romai Loustau (vestito di nero): il primo disegna con il carboncino un paesaggio inquieto, con il mare dalle onde spezzate, le nuvole e una presenza montuosa un po’ lunare che ricorda i coni dei Camini delle Fate in Cappadocia, quasi speculare a quella modellata in gesso e porcellana dall’artista francese. Parafrasando le ultime strofe della canzone I am a rock di Paul Simon (And a rock feels no pain / And an island never cries), il duo Chopra-Loustau ascrive l’esperienza umana alla natura affermando che «la roccia non ha bisogno di acqua e l’isola non piange mai».

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