Hate speech e road rage, i gemelli diversi
Avevo in mente da tempo di scrivere questo intervento e giusto poco fa mi hanno urlato «coglione!» dal finestrino aperto di un Suv molto veloce su una via in piena […]
Avevo in mente da tempo di scrivere questo intervento e giusto poco fa mi hanno urlato «coglione!» dal finestrino aperto di un Suv molto veloce su una via in piena […]
Avevo in mente da tempo di scrivere questo intervento e giusto poco fa mi hanno urlato «coglione!» dal finestrino aperto di un Suv molto veloce su una via in piena zona archeologica di Roma.
Voglio parlare dalla road rage che sembra essere in aumento. Lo vedo a occhio nudo ma voglio sentire le esperienze altrui e quindi lancio una specie di sondaggio nella mia cerchia. Le risposte sono molte e ne esce fuori uno spaccato abbastanza sconcertante di cosa stia diventando girare in bici in un’atmosfera sempre più cupa e preda del demone della violenza: dall’hate speech all’hate drive (non si dice così ma portate pazienza, è per capirsi), vedo alcune analogie tra social e strada. Sembra che il periodo assurdo che stiamo tutti vivendo abbia ridotto al lumicino la tenuta sociale anche sull’asfalto. Qualche esempio.
Sara: «Un tizio fuori di sé mi urla tro…. dal finestrino, l’avevo guardato male e mi sono spaventata perché mi stava per prendere». Stefania: «Peccato che non t’ho preso, la prossima volta miro meglio» (varianti: «La prossima volta t’ammazzo» e «magari muori», molto usate). Sandro: «Strada stretta, mia moglie mi precede. Il Suv supera me urlando di levarsi dal cazzo e successivamente stringe mia moglie fino a sfiorarla»;
Emanuele: «Di episodi ne ho a decine, ma solo 4 colluttazioni fisiche»; Francesco: «Spero che ti ammazzino perché così dopo che sei morto gli dici che secondo il codice avevi ragione»; Mafalda: «Con quel culo potete solo andare a battere, non in bicicletta»; Adriano: «Il tipo ha mollato il Suv sul marciapiede ed è sceso con fare minaccioso vedendomi sotto dicendo che mi dovevo fare i cazzi miei e che mi avrebbe menato». Straniante l’episodio di Roberto, a piedi sulle strisce: «S’inchioda facendo rombare il motore sportivo, bloccandosi a 20 cm dalle mie gambe. Tirò giù un porco e questo per tutta risposta mi urla che non devo bestemmiare e che ci vuole rispetto».
In molti raccontano il classicissimo «devi andare sulla ciclabile» anche se nei dintorni non ce n’è una; la variante è «devi andare nei parchi»; nei parchi mi è stato rinfacciato di essere lì. Mi è stato raccontato della lezione di un vigile urbano in una scuola elementare, diceva ai bimbi che le bici possono andare solo lungo le ciclabili e non in strada.
Episodi di attrito tra competitori stradali sono all’ordine di ogni maledetto giorno ma la situazione sta peggiorando a vista d’occhio.
Le ragioni sono diverse, una su tutte è banalmente l’aumento numerico di chi usa la bici, impennato in pochi anni. Accoppiato alla totale assenza di remore nel guidare veloce e sentirlo un diritto la cosa sta diventando pericolosa in vari modi. Non intendo parlare delle istituzioni, semplicemente non penso più a loro azioni. Il marketing punta tutto sulla superiorità del singolo in auto – «questa auto, però» – rispetto al resto del circostante, fossero pure Venezia o gli Uffizi.
Pochi anni fa ho definito la prevaricazione veicolare come «fascismo stradale» ricevendo critiche per la mia crudezza. Mi sento di ribadire il concetto.
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