Se, come annunciato, il capo dello Stato Michel Aoun comincerà oggi le consultazioni per la nomina del premier incaricato, un po’ tutte le forze politiche dovrebbero indicare il nome di Samir Khatib, un imprenditore a capo del gigante Khatib & Alami Engineering. Khatib è un buon amico del primo ministro sunnita dimissionario Saad Hariri che l’altra sera si è chiamato fuori dalla formazione del nuovo governo.

 

Khatib si è detto pronto a fare la sua parte. Si dice convinto di poter guidare il paese «bene come fa con la sua impresa». Considerare il Libano solo un’azienda da risanare è miope. Accanto ai conti da mettere in ordine e al contenimento del debito pubblico (86 miliardi di dollari, pari al 150% del Pil) occorre redistribuire la ricchezza, mettere fine ai monopoli e allo strapotere degli istituti di credito e finanziari se si vuole dare una risposta vera ai bisogni delle centinaia di migliaia di libanesi che dal 17 ottobre in poi sono scesi in strada a Beirut e in altre città per chiedere pane e lavoro per tutti, la fine della corruzione, del carovita, degli sprechi, della mancanza di servizi essenziali e del confessionalismo che paralizza l’economia e il sistema politico. Una protesta che all’inizio ha visto insieme cristiani, sunniti e sciiti puntare il dito contro tutti i partiti e i leader politici, dal premier filo-Usa Hariri al segretario generale del movimento sciita Hezbollah, Hassan Nasrallah, alleato dell’Iran. Ma che sta gradualmente perdendo la sua spontaneità per rientrare nei binari del perenne scontro tra le forze schierate con gli Usa, l’Arabia saudita e l’Occidente e quelle che fanno riferimento a Siria e Iran.

 

Non sfugge che mentre la maggior parte dei manifestanti, specie i più giovani, continui ad accusare tutti i partiti del disastro libanese, alcuni media locali e quelli globali finanziati da Arabia saudita e del Golfo appaiono impegnati, con un evidente fine politico, ad attribuire ad Hezbollah e all’altro partito sciita Amal le responsabilità principali. Senza alcun dubbio anche Hezbollah ha colpe importanti. Fra queste l’aver avallato, nel rispetto del sistema settario, le posizioni di potere a più livelli di altre forze politiche, anche avversarie, in modo da conservare e rafforzare le sue. Ma la sua responsabilità non è superiore a quella degli altri partiti. Non certo più di quella di Hariri e del sistema di controllo politico ed economico messo in piedi dalla sua famiglia. Non più dei libanesi che hanno esportato all’estero diversi miliardi di dollari sottraendo ricchezza al paese. Andrebbe ricordato che le rigide sanzioni finanziarie e bancarie varate dall’Amministrazione Trump contro Hezbollah quest’anno hanno contribuito a far calare le rimesse annuali dei libanesi che lavorano all’estero, da 8,5 ad 3 miliardi di dollari. Fondi vitali che assicurano la sopravvivenza di decine di migliaia di famiglie.

 

Il clima che si respira è pesante. Se qualche giorno fa si erano registrate aggressioni ai manifestanti che bloccavano la tangenziale di Beirut compiute da attivisti di Hezbollah e Amal, martedì sera a scagliarsi pietre e a prendersi a pugni e a bastonate, a cavallo tra il sobborgo sciita di Chiyah e l’adiacente area cristiana di Ein Rummaneh, sono stati giovani di Hezbollah e delle Forze Libanesi, una formazione di destra non rappresentativa delle ragioni delle proteste popolari. Questi e altri scontri – avvenuti anche a Tripoli – hanno provocato decine di feriti. Un brutto segnale per un paese che ha pagato con 150mila morti una guerra civile durata 15 anni. Ieri le donne dei due sobborghi hanno risposto all’accaduto manifestando insieme contro la violenza.