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Hare Khrisna, la conoscenza del movimento

Hare Khrisna, la conoscenza del movimento

Mostre «Matchless Gifts» è il titolo dell'esposizione ideata da Enzo Barchi e allestita al Bhatki di New York. Coinvolge molti artisti

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 10 settembre 2016

La ripetizione delle 16 parole del mantra Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare, Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare sarebbero quella nuova «sostanza psichedelica» di moda nell’East Village, a New York. Lo dice (sorridendo) lo speaker della CBS in un breve servizio andato in onda sul popolare network nel 1966 (il titolo è Happiness on 2nd Avenue). La telecamera indugia sulla vetrina di un ex negozio al 26 di 2nd Avenue con l’insegna Matcheless Gifts (doni impareggiabili), ma non sull’annuncio che segnala la lettura della Bhagavad-gita tutti i lunedì-mercoledì-venerdì con Bhaktivedanta Swami Prabhupada (all’anagrafe Abhay Charan De, Calcutta 1896- Vrindavana 1977).
Prosegue, poi, all’interno inquadrando i volti, la gestualità di quei giovani occidentali che cantano e suonano insieme a Srila Prabhupada. Nel passaggio dall’eredità beat al flower power nasce e si sviluppa il movimento ISKON – International Society for Krishna Consciousness o Krishna Consciousness Movement, fondato dal maestro spirituale indiano che proveniva da una rigida famiglia vaisnava (in gioventù aveva partecipato al movimento nonviolento di Gandhi, lavorato in una ditta farmaceutica prima di aprire una farmacia e, dal 1922, diventare seguace del guru Srila Bhaktisiddhanta Sarasvati) che negli Stati uniti era arrivato l’anno prima, a bordo di una nave mercantile, con 40 rupie in tasca e una valigia che conteneva soltanto libri e una scorta di cereali secchi.

Anche nel breve documentario sperimentale girato in 16 mm da Jonas Mekas (Hare Krishna, 1966) è espressa la gioia contagiosa di quei giovani che indossano pantaloni a sigaretta e maglioni attillati, tra palloncini colorati, fiori e cartelli su cui si legge make love not war, cantando e danzando tra un semaforo e l’altro. A due passi da lì, in Tompkins Square Park – il 9 ottobre 1966 – Srila Prabhupada sedeva con un gruppo di primi seguaci sotto l’olmo americano (conosciuto come Hare Krishna Tree) e teneva la sua prima sessione di canto fuori dall’India.

Il video di Mekas, come altri memorabilia tra cui le fotografie che mostrano l’incontro di Allen Ginsberg con lo Swami (1966), George Harrison al Radha Krishna Temple di Londra (1966), i devoti che fanno visita a John Lennon e Yoko Ono nella loro camera al Queen Elizabeth Hotel di Montreal (1969), il manifesto disegnato da Harvey Cohen (Haridas) per il Mantra Rock Dance di San Francisco nel 1967 (dove suonarono i Grateful Dead e Janis Joplin con i Big Brothers & The Holding Company), il 45 giri dell’Hare Krishna Maha Mantra (prodotto da George Harrison nel ’69) – fa parte di Matchless gifts. A group exhibition of work by artists related to the Krishna Consciousness Movement from its earliest days to the present (a cura di Francesco Gallo Mazzeo).

La mostra, ideata da Enzo Barchi e organizzata da Bhagavat Atheneum e Bibliothè Contemporary Art di Roma (in collaborazione con Associazione Culture del Mondo e Studio MB–InEvoluzionet) al Bhakti Center di New York per festeggiare il 50° anniversario dell’ISKON (13-18 settembre) coinvolge un gruppo di artisti internazionali, provenienti da culture differenti che hanno preso ispirazione dalla Bhagavad-gita: Enzo Barchi, Miriam Briks (Dhriti) & Kevin Yee (Ramdas), Marek Buchwold (Baradraj), Claudio Bianchi, Aurelio Bulzatti, Tommaso Cascella, Bruno Ceccobelli, Harvey Cohen (Haridas), Anna Maria Colucci (Samagra), Teresa Coratella, Satsvarupa Dasa Goswami, Baldo Diodato, Bruna Esposito, Govinda Dasi, Uemon Ikeda, Jadurani, Mark Kostabi, Patrizio Landolfi (Pandu Putra), Massimo Livadiotti, Ria Lussi, Andrea Orlo (Acarya Prema), Tito Marci, Muralidhara, Pariksit, Alberto Parres, Jacelyn Parry, Paola Princivalli Conti, Salvatore Pupillo, Puskara, Jack Sal, Andrea Tagliaventi, Tarshito, Giampaolo Tomassetti (Jnananjana).
I loro lavori sono il frutto di una personale interpretazione della lezione di Prabhupada che, insieme al Bhakti yoga, il vegetarianismo e l’ayurveda, aveva riconosciuto proprio all’arte visiva e alla musica, un ruolo significativo nella divulgazione del movimento. Con la stessa filosofia del Swamiji’s Art studio – è così che veniva chiamato il piccolo salotto adiacente alla camera dove Prabhupada lavorava e dormiva, al primo piano del locale nell’East Village – dove i giovani artisti trascorrevano giornate intere intenti a raffigurare scene dei testi vedici, nasceva in Italia l’Accademia o Centro d’Arte Vedica.

A dirigerla dal 1980 al 1986, nella cinquecentesca Villa Vrindavana sulle colline del Chianti, sono gli americani Ramdas e Dhriti Dasi (autrice di Radha & Krishna on Swing) che nel 1975 avevano ricevuto le istruzioni sull’arte pittorica direttamente dallo Swami. L’insegnamento tradizionale, legato alle indicazioni iconografiche e iconologiche stabilite per la pittura sacra (formulate anche nei ilpastra) è evidente nelle opere di tutti gli artisti-devoti, tra cui Jananjana, autore del grande ciclo pittorico del Mahabharata commissionato dal MOSA-Museum of Sacred Art (dal 2015 la sede italiana è a Villa Vrindavana): suo il bozzetto della fine degli anni ’80 presentato nella mostra Matchless gifts. Certamente il volto di Prabhupada è il soggetto privilegiato da molti artisti, tra cui Satsvarupa das Goswami, Ria Lussi, Uemon Ikeda, Jacelyn Parry, Pushkar Das (autore dell’immagine stampata sui francobolli da 5 rupie emessi dall’India per commemorare il centenario della sua nascita) e Aurelio Bulzatti che lo raffigura in mezzo alla folla del Lower East Side.
Mentre per Jack Sal, autore di Heaven/Earth (2012), il libro della Bhagavad-gita – contenuto da una struttura metallica sospesa da un cavo d’acciaio tra il soffitto e il pavimento – è l’elemento concettuale depositario della memoria di ogni cultura, simbolo della scienza e della saggezza, come del trascendente.

L’astrazione del blue-Krishna è alla base della costruzione dell’opera di Paola Princivalli Conti, così come Tarshito ricorre alla simbologia dell’oro – colore della spiritualità – per tracciare la sua mappa visionaria. A dare forza intrinseca al lavoro contribuiscono anche parole e simboli: «Rama Rama« per Salvatore Pupillo e l’«Om» per Patrizio Landolfi e Samagra (Anna Maria Colucci).

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