Hans Belting, icone e visualità, una storia possibile
Meno di due mesi separano l’uscita della nuova traduzione italiana di Bild und Kult – Immagine e culto (a cura di Luca Vargiu, Carocci, pp. 859, figg. 262, euro 100,00) – dalla scomparsa dello storico dell’arte Hans Belting, il 10 gennaio scorso a Berlino, all’età di 87 anni. La formazione da medievista è, in ordine di tempo, il primo motivo della celebrità dell’autore sul suolo italiano, prima come esperto della pittura altomedievale nelle terre longobarde del Mezzogiorno, poi come protagonista della variegata riscoperta delle icone come oggetto specifico di indagine per la storia dell’arte. Le premesse di questa rivalutazione vanno ricercate a metà Novecento, col restauro delle più antiche immagini mariane di Roma. Dall’altra parte del Mediterraneo, la missione di Princeton al Sinai (1958-’65) rendeva disponibile al pubblico di tutto il mondo, grazie alle riproduzioni fotografiche a colori, la vasta collezione di icone del monastero di Santa Caterina, alcune risalenti ai primi secoli della Cristianità.
Belting arrivò a trattare le origini dell’immagine sacra nel Cristianesimo con un percorso a ritroso, a partire dall’interesse per la ricezione delle icone bizantine importate in Europa con la Quarta Crociata, che lo aveva occupato negli anni settanta. La novità della sua proposta con Bild und Kult (1990) è subito chiara: tessere una storia delle icone fino agli estremi cronologici della loro fortuna in Europa occidentale, quindi al di là degli specialismi interni ed esterni alla storia dell’arte: l’iconografia rivendicata allo studio delle Antichità cristiane, l’iconologia, la medievistica e lo studio del Rinascimento.
È questo il primo degli aspetti della critica alla disciplina che Belting andava strutturando negli anni dell’insegnamento a Monaco (1980-’92): Ende der Kunstgeschichte? (Fine della storia dell’arte?) s’intitola la prolusione accademica del 1983, ripubblicata senza punto di domanda proprio a valle di Immagine e culto.
A ben guardare, l’interrogativo era già tra le righe del libro sull’iconografia della Passione (Das Bild und sein Publikum, 1981), dove si esprimono riserve tanto alla critica formale e stilistica dell’opera d’arte quanto al metodo iconografico formulato da Erwin Panofsky, principalmente vólto a decifrare le opzioni figurative e a connetterle entro uno specifico ambiente storico. Allo stesso modo, nel libro del 1990 Belting si dichiara estraneo a uno studio dell’immagine che ne indaghi la trasmissione nella memoria culturale (come già Aby Warburg) e tanto più alla ricerca delle immagini archetipiche di derivazione jungiana.
Una seconda critica è implicita, va rintracciata nell’epilogo del lavoro, in cui si fissa la conclusione della vicenda delle antiche immagini di culto nell’interesse antiquario della Controriforma, ai primordi della storiografia moderna. È insomma la critica rivolta allo storicismo: il sottotitolo (Una storia dell’immagine prima dell’età dell’arte) vale a circoscrivere l’arte a una sua propria èra, come tale la svuota dalla pretesa di universalità e ne esautora la validità per la comprensione della rappresentazione umana come costante di cultura visuale. Era del resto accaduto anche alla coscienza storica, in senso hegeliano e marxista, di cui The End of History and the Last Man (1989) di Francis Fukuyama aveva giusto appena decretato la dismissione. A distanza di trent’anni è chiaro come filtrasse nell’audacia di queste cesure, un po’ millenaristiche, l’istanza di rinnovamento ed espansione delle scienze umane che si agganciava al crollo della cortina di ferro. In Belting c’è anche il senso di un recupero: l’eredità comune al Blocco, quella dell’immagine iconica che egli dichiara di voler leggere al di là dei presupposti romantici e dell’Orientalismo dominante nell’apologia confessionale, ancora ai tempi della Guerra fredda.
La costruzione teorica di Belting partiva da un iniziale ricalco delle teorie semiotiche: in un primo momento egli definiva l’immagine «testo visuale», concentrando quindi nel traslato metaforico di stampo ancora strutturalista l’intuizione di un meccanismo non verbale, capace di trasporre contenuti e funzioni entro una sua forma specifica. In qualche modo, l’istanza nasce dalle immagini stesse, dall’intrinseca qualità dei dati in esse trasmessi (Bildinformationen). Con Bild und Kult l’intuizione si fa più acuta, grazie all’isolamento di uno specifico campione figurativo: l’immagine iconica, che offre insieme un sembiante e ne attualizza la presenza – Likeness and Presence è il titolo dell’edizione americana. Da una parte l’icona esibisce una parvenza ritrattistica, che è difatti enfatizzata dalle tradizioni sulla ‘vera effige’ dei personaggi sacri (si pensi alla Veronica), dall’altra detiene un potenziale trascendente: l’icona assicura la rivelazione del soggetto al di là della sua comparsa/scomparsa storica, ed è capace di renderla manifesta ben oltre, nelle molteplici espressioni del culto a essa tributato.
La definizione di Kultbild (immagine di culto) viene prescelta da Belting sulla linea dell’archeologia, cioè dell’interesse per gli usi religiosi del Mediterraneo pre-cristiano: tradizione eminentemente laica e vòlta a emancipare la corrispondenza tra l’icona cristiana e le antiche immagini di dèi e antenati dalla distinzione elaborata in sede teologica. Ma c’è di più. Nel solco della terminologia di area germanica, che attribuisce alle figure sacre uno specifico orizzonte performativo, miracolistico o di pietà religiosa (Gnadenbild, Andachtsbild ecc.), Belting definisce il dispositivo iconico nella sua connessione alle pratiche che lo coinvolgono: soprattutto il culto ufficiale, non immune però da una «pressione dal basso», cioè quella dell’attaccamento popolare, e dai molti attori che insieme all’immagine stessa concorrono a strutturare specifiche strategie visuali.
Con Immagine e culto si inaugura il filone dell’antropologia visuale (Bildantropologie) come alternativa di metodo, anche se l’autore ammette di servirsi del «collaudato mezzo della narrazione» per far parlare le immagini ancora nell’alveo del racconto storico. Non è una soluzione univoca. Rigettando la radice positivista del discorso specialistico, l’intenzione di «raccogliere materiali ai fini di un’analisi dell’immagine storica» si traduce piuttosto nella confessione dei limiti di «Una storia dell’immagine», non a caso relativizzata fin dall’articolo indeterminativo nel titolo del libro. Paradossalmente, appare arbitrario persino il campione d’indagine prescelto, cioè l’immagine destinataria del culto cristiano – paradigmatica certo, ma del resto una fra le classi possibili.
Proprio in questa reticenza si annuncia l’enorme potenziale sprigionato nei decenni che ci separano dalla prima edizione dell’opera: il curatore di questa nuova traduzione ne tratteggia gli effetti sulla ‘svolta iconica’ (iconic turn) della medievistica contemporanea, ma si potrebbe sottolineare l’apertura all’orizzonte mediale della rappresentazione – soprattutto sulla linea post-moderna dell’autoreferenzialità della produzione figurativa – come pure alla corporalità dell’esperienza visuale. Sono i sentieri arrischiati dell’indagine scientifica, per la quale Bild und Kult non ha offerto una metodologia distillata, ma un angolo di visione ben più stimolante e attuale, che attraversa gli steccati del sapere e oltrepassa il mito persistente dell’autorialità e dell’opera d’arte, investita oggi più di ieri dalla proliferazione mediatica delle immagini.
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