Hanno vinto gli Stati uniti o Cuba?
La "tregua" dopo Panama Raul Castro, smentendo l’immagine ideologica affibbiatagli a Miami, si è mosso con maestria diplomatica. Finora è fallito anche il tentativo di levarsi rapidamente dai piedi Maduro, il successore di Chávez
La "tregua" dopo Panama Raul Castro, smentendo l’immagine ideologica affibbiatagli a Miami, si è mosso con maestria diplomatica. Finora è fallito anche il tentativo di levarsi rapidamente dai piedi Maduro, il successore di Chávez
Sono tramontate le ideologie ma la Revolucion è sempre lì.
Evidentemente tutte le analisi erano state sbagliate.
Alla fine, dopo ben 55 anni, gli Stati Uniti si sono dovuti arrendere e accettare, apparentemente, che Cuba scegliesse da sola il proprio destino. La nostra informazione, inguaribilmente prona di fronte agli interessi del governo di Washington, ha subito tentato maldestramente di affermare che aveva vinto la lungimiranza di Obama.
Dimenticandosi di aggiungere che, a parte lo scambio di alcuni agenti dei servizi segreti dei due paesi, un paio di strette di mano per soddisfare i media, ci sono voluti 5 mesi perché Obama e Raul Castro finalmente si incontrassero e incominciassero a confrontarsi. Sono molti a pensare che l’itinerario sarà lungo e accidentato, specie considerando che le prossime elezioni nordamericane, secondo molti, le vinceranno i repubblicani.
Certo nessuno pensava che alla fine Cuba avrebbe ottenuto quello che più anelava, vale a dire la liberazione degli ultimi tre dei cinque agenti della propria intelligence capaci di smascherare il terrorismo organizzato in Florida e messo in atto a Cuba e che nell’arco di 35 anni aveva causato più di tremila morti.
Ma gli Stati Uniti avevano l’interesse sovrano di far rilasciare, dopo 6 anni di galera a L’Avana, Alan Gross che ufficialmente era andato a Cuba per rifornire di apparecchiature tecnologiche, la comunità ebraica, anche se questa comunità ha affermato che non aveva mai richiesto le suddette attrezzature a nessuno.
La moglie di Gross alla fine aveva tirato un sasso nello stagno facendo presente che, se Alan fosse rimasto intrappolato a Cuba sarebbe stato costretto a rivelare qualcosa di strategicamente non conveniente per gli USA. Sembra la sequenza di un film di 007, ma è solo la resa, per ora, di fronte a una logica che ha portato Cuba ad avere tutto un continente che la sostiene e Obama, il Presidente nordamericano, a dover dichiarare con onestà intellettuale: “Abbiamo fallito”.
In verità il Presidente degli Stati Uniti già da tempo si era accorto che certi atteggiamenti della politica estera nordamericana erano perdenti e non solo in Ucraina o in Siria o quando avevano avallato l’azzardata strategia riguardo alla Libia. Una strategia che aveva portato all’eccidio di Gheddafi, ma anche all’assassinio dell’ambasciatore nordamericano in quel territorio. Così quando Obama, con molta sincerità, aveva dichiarato: “Non sono interessato a guerre nate prima di me” si era capito che forse stava per finire la politica di ingerenza USA nel continente, specie in una nazione che ancora non riesce ad affermare completamente i diritti dei neri e degli ispani.
Oltretutto, finora, è fallito anche il tentativo di levarsi rapidamente dai piedi Maduro, il successore di Chávez in Venezuela, specie dopo che tutta l’Organizzazione degli Stati Americani aveva ribadito che non c’era nessun motivo per intervenire sul governo di Caracas.
Il primo Presidente nero degli Stati Uniti, anni fa aveva dichiarato “i 70mila medici cubani all’opera nei paesi più poveri del mondo hanno prevalso su qualsiasi altra strategia da noi provata”.
Evidentemente pur avendo accettato, tristemente, di iscrivere Cuba e il Venezuela come “paesi canaglia”, cioè terroristi, su pressione dei grandi elettori della Florida, Obama si era reso conto che non si poteva continuare ad angariare un paese solo perché aveva scelto un sistema politico non gradito agli Stati Uniti.
Questo non significa, però, che certi atteggiamenti non torneranno d’attualità.
La politica è spesso cinica e basta ricordare la frase del Presidente George Bush senior per essere scettici sul futuro: “Non mi metterò mai a un tavolo per discutere il livello di vita preteso dai cittadini degli Stati Uniti”.
La logica delle grandi nazioni è sempre la stessa, ma certe volte la situazione ti impone di moderare i termini, per questo non penso che el bloqueo sarà tolto a breve e che altri particolari della vita di Cuba non saranno disturbati dalla prepotenza dell’economia neoliberale o dall’arroganza delle borse-valori o dalle multinazionali o dall’apparato militare e industriale del paese.
Credo, però, che certe sconfitte possano servire per un po’ di anni di tregua.
Per merito di Cuba e più recentemente di Hugo Chávez, Lula Da Silva, Evo Morales, Rafael Correa e delle Presidenti donne di Brasile, Cile e Argentina tira un’altra aria nel continente. Bisognerà ora vedere quanto Cuba saprà adattarsi per aprirsi a un’economia mista e al mercato.
In questo senso c’è una rinnovata fiducia nel Presidente Raul Castro che smentendo l’immagine integralista e ideologica che gli avevano affibbiato a Miami quando era ministro della Difesa, ha condotto con maestria diplomatica questa apertura storica con il vecchio nemico. È interessante constatare che in questo cambio epocale abbia pesato fortemente la nuova chiesa di Papa Francesco, l’argentino venuto da lontano. 55 anni fa, la maggior parte dei preti cubani, educati nella Spagna del dittatore Francisco Franco era contraria alla rivoluzione.
Perfino l’attuale arcivescovo de L’Avana, Jaime Ortega, da giovane transitò brevemente nei campi di lavoro. Era la stagione in cui Cuba doveva difendersi da molti nemici e vedeva nemici dappertutto, una comprensibile “sindrome dell’assedio”. Adesso il cardinale Ortega, che ha una politica molto ecumenica, non è simpatico ai duri e antidemocratici di Miami. È evidente che altri valori, come solidarietà e convivenza, hanno guidato l’evolversi di un paese che ha saputo resistere in ogni momento storico a prove durissime.
L’informazione occidentale, specie quella dello spagnolo El Pais, quotidiano fondato da un’ex franchista, e che in modo molto discutibile influenza tutta l’Europa sulle vicende del continente latinoamericano non è disposta a condividere il cambio in atto a sud del Texas. Questione di interessi, questione anche di un’egemonia, quella spagnola, ormai tramontata. Forse anche di miopia, se è vero che l’obiettivo di questo riavvicinamento storico, voluto dagli Stati Uniti, ha come proposito palese, quello di riavvicinare, di recuperare l’America Latina.
È più difficile, invece, capire l’atteggiamento succube e omertoso dell’informazione italiana. A meno che non stia aspettando ancora di conoscere la linea che desidera Washington.
È vero che, come hanno scritto maestri come Bocca o Biagi, è finito il giornalismo, ma interpretare il cambio dei rapporti tra Cuba e Stati Uniti come una vittoria di questi ultimi significa travisare la storia e questo la storia stessa lo smentirà facilmente.
* Questa analisi verrà pubblicata nel prossimo numero di LatinoAmerica in libreria il 27 aprile prossimo
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