Han Kang, sparita la lingua ne resta l’ombra tessuta di spilli
Per il triste lettore occidentale – che nei casi più fortunati può spingersi al massimo fino, e non oltre, le colonne d’Ercole rappresentate dalle lingue a lui più prossime – Han Kang fa fede di un problema letterario: un «modesto mistero», direbbe Borges, per il quale il problema Kang sarebbe stato forse di qualche interesse. Fino a oggi, il lettore italiano ha sperimentato la luce ambigua sotto cui si rivelano – e allo stesso tempo si negano – le opere dell’autrice coreana, attraverso le eleganti versioni di Milena Zemira Ciccimarra, ricavate però dalle traduzioni inglesi: rispettivamente di La vegetariana, Atti umani, e Convalescenza.
Arriva adesso, sempre da Adelphi, L’ora di greco (pp. 162, € 18,00) e stavolta la traduzione è condotta da Lia Iovenitti a partire dal testo originale coreano. La pubblicazione britannica della Vegetariana, che aveva conferito alla traduttrice e alla scrittrice una improvvisa e inattesa fama grazie alla vittoria dell’International Booker Prize – fama accresciuta peraltro dal Prix Médicis étranger vinto nei giorni scorso per il suo ultimo libro tradotto in Francia –, era stata aspramente criticata in Corea del Sud, sia per una serie di veri e propri errori, sia per una generale tendenza a non rispettare la prosa di Kang, perlopiù alterandone il registro.
Alla giovane e allora inesperta Deborah Smith era toccato ammettere alcune sviste, sommate a una versione «informata dalla sua prospettiva personale» sul romanzo di Kang. Recensendo La vegetariana sulle pagine di «Alias», Remo Ceserani si era soffermato sui problemi di ricezione di un’opera scritta in una lingua «ignota ai più», sottolineando come la versione italiana risultasse tuttavia più accurata di quella inglese, l’unica su cui era stata condotta la traduzione (un fatto borgesiano). Forse Ciccimarra aveva potuto giovarsi dei commenti e delle critiche mosse alla versione inglese nel frattempo già licenziata, oppure si trattava – concludeva squisitamente Ceserani – «di un felice caso di trasmissione del pensiero e del linguaggio, il cui risultato è una miracolosa aderenza al testo originale coreano, che nessuno di noi conosce» (fatto ancora più borgesiano).
Forse per via del leitmotiv del testo, o forse perché esso ci arriva stavolta direttamente dalla sua lingua d’origine, la «nuova» Kang appare ancor più straniante rispetto alle prove precedenti. E, nel tentativo romanzesco di intessere legami discreti tra motivi della cultura occidentale e più o meno dichiarati influssi buddhisti, paradossalmente esotica. Nell’Ora di greco fioccano infatti i riferimenti a Borges, Platone, e forse all’innominato Martin Heidegger, a sua volta grande commentatore del filosofo ateniese, che scrisse – citato da George Steiner in epigrafe al suo Dopo Babele – «L’uomo si comporta come se fosse lui a forgiare e a dominare la lingua, mentre è la lingua che resta la padrona dell’uomo. Quando questa relazione di dominio viene invertita, l’uomo si trova limitato a strani espedienti».
Le regole più astruse
L’ora di greco è la storia di una donna che cerca di recuperare la capacità perduta di esprimersi a parole. E che per farlo si mette a studiare una lingua «con regole così complicate» da apparirle astrusa: il greco antico (per il lettore che poche pagine prima, anche nell’edizione italiana, ha potuto ammirare alcuni indecifrati segni dell’affollato alfabeto coreano, questa considerazione potrebbe risultare spiazzante). Dalla situazione specifica in cui si trova la protagonista del romanzo – una donna muta che frequenta lezioni su un idioma scomparso – discendono poi alcune considerazioni linguistiche sul greco vagamente impressionistiche, ma non prive di fascino. Fino a quando, l’unico altro personaggio di questo scarno libro – il professore di greco che sta diventando cieco e perciò si interessa alla figura di Borges – spalanca sotto i piedi del lettore una botola paurosa, annunciando un cambio di opinione sul maestro argentino «dopo aver letto i suoi romanzi». Quali romanzi?
Dando per scontato che Kang conosca in Borges l’autore di tutto fuorché romanzi, il problema di traduzione (dal coreano!) che si viene a creare ha natura anch’essa borgesiana: esisterà un nome coreano con il quale si può dire sia finzione, sia racconto, sia romanzo? Probabilmente sì. Possibile che nessun revisore di quello che è anche l’editore italiano di Borges si sia accorto di un simile errore? Difficile. Dunque, si deve ipotizzare che «romanzo» sia la parola giusta. Del resto, Kang – e per lei le due voci che «abitano poeticamente» il suo libro – scrive da una intercapedine indefinita, da «un luogo in ombra da cui è difficile avanzare», da un universo parallelo in cui Borges potrebbe aver scritto romanzi e nel quale tutte le culture umane si sono ricombinate (il professore porta con sé una lisa edizione tedesca delle conferenze di Borges sul buddhismo) in un nuovo, vertiginoso Aleph (la donna sogna «una parola che condensava tutte le lingue dell’umanità, immensa massa cristallizzata di lingue». E per di più, il contatto tra lei e il professore, che porterà a una certa intimità e al lieto fine, avviene nel buio di una cantina, come nel racconto di Borges «L’Aleph», in cui si dà notizia del «luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli»).
Nello scacco vissuto dalla protagonista – «Il linguaggio che la aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli era sparito» – si rispecchia la drammatica impossibilità, per Kang come per tutti noi, di penetrare non questa o quella cultura, ma la sua lingua tout court, così che tanto più il romanzo si lascia ammaliare da alcuni bagliori della Biblioteca di Babele, tanto più sembra esserne sospinto lontano a ogni tentativo di approssimazione: fin dall’incipit, quando il professore si produce nella banalizzazione di uno degli epitaffi che Borges scelse per sé, «C’era una spada tra noi», da lui interpretato come il ricordo della «cecità che si frappose tra il mondo e Borges».
Continuità e differenze
Il risvolto ci informa che L’ora di greco sarebbe una sorta di ideale seguito della Vegetariana. I due libri in effetti rivelano una continuità narrativa e stilistica, ma mostrano anche significative differenze: la protagonista della Vegetariana veniva osservata da lontano, da figure a lei vicine ma per le quali le sue scelte restavano un rebus incomprensibile; quella dell’Ora di greco viene trapassata da un narratore onnisciente che ne infiltra la mente e le carni, fino a studiarne le minime cicatrici del corpo e dell’anima. Senza, per questo, intaccarne il mistero.
Libro ardito – verticale, diremmo a queste latitudini – sulla incommensurabilità delle lingue come risorsa e come condanna, L’ora di greco ha pagine sfuggenti in cui si fa strada un lirismo frugale, in bilico tra l’eleganza della prosa e una certa indeterminazione delle molte immagini poetiche cui Kang non si stanca di ricorrere, fino all’evanescente scioglimento conclusivo.
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