Han Feizi, la voce del potere
Classici dell'estremo oriente Tradotto uno dei testi più straordinari della letteratura cinese, «Han Feizi», conosciuto con il nome del suo autore, che nel 233 a.C. una campagna denigratoria costrinse al suicidio. In forma di aneddoti, notazioni beffarde si alternano a disnicantate riflessioni circa l'egoismo dell'uomo
Classici dell'estremo oriente Tradotto uno dei testi più straordinari della letteratura cinese, «Han Feizi», conosciuto con il nome del suo autore, che nel 233 a.C. una campagna denigratoria costrinse al suicidio. In forma di aneddoti, notazioni beffarde si alternano a disnicantate riflessioni circa l'egoismo dell'uomo
Nonostante i considerevoli sviluppi degli studi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni, l’immagine della Cina antica sembra rimanere, nella percezione corrente, affidata allo stucchevole stereotipo «orientalistico» di una eterna, univoca e prevedibile saggezza, della quale «confucianesimo» e «taoismo» – a loro volta effigiati come immobili entità metastoriche anziché come fenomeni multiformi, dinamici e cangianti – sarebbero gli unici e invariabili ingredienti.
Eppure, già da tempo sono disponibili al lettore italiano riferimenti divenuti ormai classici, da La ricerca del Tao di Angus C. Graham alla Storia del pensiero cinese di Anne Cheng, che offrono rappresentazioni assai articolate dell’epoca degli Stati Combattenti, fra il V e il III secolo a.C., una fertile stagione di libero dibattito e di ineguagliata creatività intellettuale. Da questi studi si può agevolmente dedurre il grande rilievo di una corrente che ha a lungo subìto una sorta di pervicace damnatio memoriae da parte della storiografia di ispirazione confuciana, e che invece ha profondamente inciso sull’esprit des moeurs e sulle istituzioni cinesi, come già mostrava il pionieristico studio di Léon Vandermeersch, La formation du légisme, la cui duratura influenza si può constatare, fra l’altro, dalle significative rivendicazioni del suo retaggio esibite da Xi Jinping nel corso di alcune dichiarazioni pubbliche.
Il cosiddetto «legismo» (fajia) è un indirizzo emerso nell’ambito della prassi e della teoria politica alla corte dello stato di Qin, protagonista dell’unificazione cinese; al legismo si ispirarono le radicali riforme di Shang Yang, vissuto nel IV secolo a.C., cui si attribuisce lo Shangjunshu, ossia il Libro del Signore di Shang, che istituì le premesse per la fondazione, nel 221 a.C., dell’impero centralizzato.
Fondato su una pragmatica considerazione della realtà effettuale, questo orientamento disegna una tecnica del potere destituita di ogni connotazione etica e di ogni rispetto per la tradizione; la sua più compiuta elaborazione si deve a Han Feizi, un grande pensatore che Jean Levi, nel suo Le Tao du Prince, propone di accostare a Machiavelli e a Hobbes.
Nato all’inizio del III secolo e discendente diretto dei duchi di Han di cui portava il nome, Han Feizi fu uno dei rari pensatori della Cina antica appartenente all’alta nobiltà. Dopo essere stato inviato come ambasciatore a Qin presso il futuro Primo Imperatore, divenne oggetto di una violenta campagna denigratoria, fu imprigionato e costretto al suicidio nel 233. Non diversamente da altri illustri «legisti» (fatti a pezzi come Shang Yang, o come Li Si, primo ministro di Qin fra il 246 e il 208 a.C., le cui sorti ci ricordano quanto viene raccontato nel Principe di Remirro de Orco, zelante emissario del duca Valentino che per suo ordine finì tagliato in due) Han Feizi fu vittima di una morte violenta ad opera di quel potere sovrano al cui consolidamento aveva dedicato tutte le risorse della sua acuta intelligenza.
L’opera che ne reca il nome è un insieme di saggi, coerentemente argomentati in un’energica prosa, dove alle disincantate riflessioni circa la natura eminentemente egoistica degli esseri umani si affiancano considerazioni ironiche e beffarde nei confronti delle loro marcate propensioni alla credulità e alla stolidità, esemplarmente effigiate in memorabili aneddoti, spesso divenuti proverbiali: come il racconto dell’uomo di Song, che poiché ha visto una volta una lepre andare a schiantarsi contro un ceppo, resta per sempre in fiduciosa attesa del prodursi di un identico caso; o la boccaccesca vicenda del vecchio messer Li, convinto dalla giovane moglie che il ragazzo nudo dai lunghi capelli uscito dal letto di lei non è il suo amante, bensì una visione demoniaca di cui il marito si dovrà esorcizzare immergendosi negli escrementi di molti diversi animali.
Non meno della forza del ragionamento, è un sapido gusto narrativo a fare di questo libro uno dei testi più straordinari della letteratura cinese di tutti i tempi.
Una estesa antologia dello Han Feizi (29 capitoli sui 55 che compongono l’opera, Einaudi, NUE, pp. 328, euro 35,00) viene oggi presentata per la prima volta in edizione italiana a cura di Giulia Kado, già autrice di una traduzione dei capitoli 36-39 (Le confutazioni di Han Fei, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 2009), con il corredo di una succinta postfazione la cui brevità, forse dettata dall’intento di non tediare il pubblico con apparati troppo grevi, lascia peraltro un po’ sfocati alcuni aspetti che avrebbero potuto appagare la curiosità del lettore: ad esempio, l’esplicitazione dei criteri in base ai quali sono stati selezionati i testi proposti, una questione di speciale interesse visto il carattere composito del libro che, come evidenziano recenti ricerche, dà luogo a diverse interpretazioni circa le posizioni dell’autore. C’è chi lo vede come teorico dell’autocrazia e fautore di un’assoluta obbedienza di ministri e sudditi, e chi invece lo ritiene, sì, sostenitore di un ordine autocratico, ma in ultima analisi rivolto alla sicurezza e al benessere del popolo; c’è chi sottolinea una sua pressoché ossessiva dedizione all’interesse del sovrano, e chi ne mette in luce, piuttosto, l’adesione al punto di vista della burocrazia.
Ciascuna di queste tesi può essere comprovata sulla base di pagine diverse del testo, che infatti non poche volte sconcerta il lettore grazie al suo elevato grado di contraddittorietà. Ma anche questa constatazione dà luogo – a sua volta – a conclusioni divergenti: alcuni interpreti avanzano l’ipotesi che il testo sia il frutto di una miscellanea partorita da autori diversi, altri invece lo ritengono di un unico autore, il quale adatta abilmente a circostanze e a uditori diversi i propri discorsi, indirizzando, volta a volta, agli orecchi del sovrano o dei ministri le fertili risorse di una retorica persuasiva ed efficace.
Tuttavia, le diverse prospettive mostrate dallo Han Feizi, che continuano a dar luogo a grandi dibattiti, si possono forse ricondurre – come già Angus C. Graham a suo tempo aveva intuito e come una vasta esegesi contemporanea sostiene – a una procedura dialettica coerente, articolata in tappe diverse e così riassumibile: in primo luogo, si afferma l’esigenza di rafforzare l’autorità del sovrano di cui si celebra il potere assoluto, e lo si esorta soprattutto a guardarsi da chi gli sta più vicino (ministri, mogli, concubine, figli sono tutti suoi potenziali traditori e nemici).
Poi, al di là di questa fase, si procede a neutralizzarne la soggettività: egli viene di fatto ridotto alla funzione impersonale di assegnare ricompense, incarichi e castighi, in stretta aderenza all’imparzialità di «leggi e metodi» (fa). E alla fine, si scopre che queste strategie sono, in ultima istanza, insegnate al sovrano e concretamente attuate da esperti del genere a cui appartiene Han Feizi: sono questi specialisti, in effetti, a detenere il reale potere dello Stato sotto la superiorità nominale del sovrano, onnipotente in quanto istituzione, ma neutralizzato in quanto individuo.
Sotto questo profilo, Han Feizi si rivela meno lontano di quanto un tempo si credesse dagli altri pensatori della sua epoca, e sembra condividere con loro, al di là delle molte differenze, il fine di edificare un possente stato centralizzato in cui gli intellettuali/funzionari (shi) gratificano di omaggi ufficiali il sovrano, governando – in realtà – al suo posto. Quanto alla questione dell’adeguatezza o meno del termine «legismo», sollevata di recente da Paul R. Goldin in un saggio titolato «Persistent Misconceptions about Chinese Legalism» (Journal of Chinese Philosophy 1, 2011), la postfazione vi allude vagamente, e con qualche equivoco: i persistenti fraintendimenti di cui si discute non hanno tanto a che fare con i suoi «connotati negativi», quanto con la difficoltà di definirlo in termini di «scienza amorale dello stato», che a sua volta rinvia alla problematicità di una resa univoca del termine fa con «legge». Il fluido campo semantico del termine legismo riguarda, in senso lato, i metodi (in special modo le determinazioni di ricompense e castighi) che garantiscono l’efficienza dell’amministrazione e la docilità dei sottoposti, dunque include il concetto di legge ma non vi si esaurisce.
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