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Hamsun, una lingua che batte dove lo stomaco duole

Hamsun,  una lingua che batte dove lo stomaco duoleAxel Revold, «Mattino», 1927

Scrittori norvegesi La prosa pulsionale del giovane Knut Hamsun, restituita in tutta la sua carica straniante dalla nuova traduzione di Maria Valeria D’Avino: «Fame», datato 1890, da Marsilio

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 22 ottobre 2023

Nella seconda metà dell’Ottocento, i conflitti sociali si riverberavano sempre più spesso nelle descrizioni letterarie, che pescavano immagini di indigenza nelle città, di sfruttamento nel lavoro salariato, di accattonaggio, a volte virando verso una qualche prospettiva di riscatto. Da Victor Hugo a Charles Dickens, umili figure del romanzo realista si facevano interpreti di istanze emancipatorie, che la stessa borghesia aveva contribuito ad alimentare. Nulla di tutto ciò tra le pagine del romanzo di esordio, titolato Fame, dello scrittore norvegese Knut Hamsun (già tradotto da Ervino Pocar per Adelphi, nel 1974, e ripreso ora Marsilio in una nuova traduzione di Maria Valeria D’Avino, pp. 208, € 15,00). Il protagonista è un aspirante scrittore, la cui povertà è senza riscatto possibile, materiale e psichica insieme, una povertà che diventa via via consustanziale alla sua fibra di uomo. Uscito nel 1890, il romanzo descrive, in una prima persona senza nome, i vagabondaggi, le fughe e i pentimenti dell’uomo, che tra improbabili espedienti e drammatiche crisi interiori si trascina in una Oslo in chiaroscuro. Alla fredda cronaca del racconto sociale Hamsun sostituiscono descrizioni intermittenti, lacunose, immagini offuscate dal grigiore dell’indigenza o ravvivate dai momentanei slanci vitali del protagonista; e alla parabola moraleggiante dell’autodistruzione del perdente preferisce la descrizione di un declino in primo luogo percettivo, conseguenza della rovina dei nervi, che provoca una crisi dell’orizzonte sensoriale, in cui la realtà oggettuale perde consistenza e si presenta sotto forma di inganno.

Ciò che ha fatto leggere Hamsun come un precursore di Franz Kafka e di Henry Miller sta nel suo recuperare la spigliatezza del romanzo picaresco mettendo in scena le conseguenze  parossistiche della miseria, che corrompe le facoltà mentali dell’individuo, fa a pezzi le sue capacità argomentative, ne azzera le velleità morali: già affacciato sul novecentesco terreno in cui l’io narrante si prepara allo scacco matto, Hamsun  ne descrive la capitolazione, non ordita da altri se non sé stesso.

Quella che Giordano Tedoldi ha chiamato «pulsionalità» della prosa in dotazione allo scrittore norvegese traspare nitidamente nella nuova traduzione di Maria Valeria D’Avino, capace di restituire il pulsare rocambolesco delle frasi che si susseguono insieme all’incepparsi della macchina narrativa.

Hamsun si guadagnò nei primi decenni del Novecento la fama di scrittore vitalista, megafono di un’alternativa antiurbana e antindustrialista, e fu probabilmente in questa veste che ottenne il Nobel nel 1920; al suo esordio narrativo si presenta, invece,  come uno scrittore ancora sperimentale, che apparecchia una trama inconsueta, labile, di cui si avverte lo sfilacciarsi; un processo che la nuova traduzione esalta, riportando con clinica precisione le conseguenze allucinatorie della fame. Dopo aver macinato chilometri in cerca di una alcova e averne trovate di via via più scomode, sempre in attesa di risposte da parte di editori e redattori di giornali, il protagonista perde via via il controllo di sé, finché anche la padronanza della sua normale attività linguistica si fa incerta. L’impasse di un linguaggio che riflette su di sé, ben prima degli approdi modernisti, rivela – nella versione di D’Avino – tutta la sua carica straniante: «Pensavo di avere inventato una parola nuova. Mi tiro su a sedere nel letto e dico: Non esiste nella lingua, lho inventata io – Kuboa. Ha delle lettere come ogni altra parola, Signore Gesù, ragazzo, hai inventato una parola… Kuboa… La vedevo molto nitida nel buio. Sono seduto sul letto a occhi aperti, strabiliato dalla mia scoperta e rido di gioia. Poi mi metto a parlare sottovoce: forse qualcuno mi spiava e io intendevo mantenere segreta la mia invenzione. Ero entrato nella pura follia della fame, ero vuoto e senza dolori, e i miei pensieri galoppavano a briglia sciolta. Mi consulto in silenzio con me stesso».

Solo a fatica, la fisicità espressa dalla scrittura di Hamsun si piega alle esigenze della narrativa, rivelando più che i residui romantici intravisti da alcuni critici, un lirismo spasmodico, ignaro di ogni compostezza. Qui ancora a uno stato embrionale, il radicale odio per la civiltà che tanto ha influenzato la ricezione di Hamsun, non consente – ha scritto Goffredo Fofi – alcuna «pacificzione della coscienza individuale con la società». Alla sua entusiastica adesione al nazionalsocialismo, negli anni Quaranta, si somma, in  un’altra sua opera fondamentale, Pan del 1894, l’espressione di uno spirito nordico selvaggio e tormentato. Certo, il filtro «germanico» compromise, o almeno rallentò, una corretta ricezione dell’autore norvegese. E in questo panorama, le traduzioni italiane del suo esordio, Fame, sono un’eccezione, perché già a partire dagli anni Venti – come hanno messo in evidenza gli studi della scandinavista Sara Cubeddu – favorirono l’interpretazione dell’opera di Hamsun come né romantica né naturalista, bensì già indirizzata verso tensioni estetiche, che solo più tardi avrebbero trovato compimento.

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