Arriva finalmente in scena il torrenziale Hamlet di Antonio Latella. Sette ore di spettacolo (intervalli compresi), le cui due parti vanno in scena (al Piccolo Teatro studio Melato, fino al 27 giugno) a settimane alterne; solo al sabato e domenica lo spettacolo va di seguito in maratona. La produzione era già pronta e si apprestava al debutto lo scorso anno ma fu bloccata dalla esplosione pandemica che fece chiudere i teatri.

ANTONIO LATELLA aveva già in altre occasioni lavorato sull’Amleto shakespeariano, e questa ulteriore ricognizione ad amplissimo raggio arriva dunque come una summa di riflessioni e verifiche attorno al principe di Danimarca, e forse anche a certe idee di teatro. Secondo una linea operativa che da sempre costituisce una sua caratteristica, il regista ha chiamato attorno a sé i collaboratori di tante esperienze e successi precedenti. Innanzitutto Federico Bellini e Linda Dalisi, rispettivamente traduttore e drammaturga dello spettacolo. Nessuno dei due si è lesinato nel proprio intervento: il testo è molto evocativo del linguaggio corrente oggi, compresi quindi azzardi e sfondoni della nostra quotidianità, a tratti pura citazione del nostro cazzeggio quotidiano, e qualche forzatura temporale o culturale come nell’evocare furbamente «l’inquisizione», o ancora il «togliere i cerchioni alle ruote delle bighe» nella citazione omerica dei teatranti. Allo stesso modo la «organizzazione» delle azioni e delle loro implicazioni lascia trasparire una precisa scelta di «lettura» di un testo notoriamente «strabordante», tra l’incipit «Chi è là» (titolo scelto a suo tempo da Peter Brook per il suo Amleto) e la tombale affermazione conclusiva «Il resto è silenzio», che aprono e chiudono anche qui la kermesse.

MA TUTTE LE PAROLE possibili, nel la scrittura shakespeariana, sono state dette prima: Latella ne approfitta per condurre lo spettatore nel vortice, di lessico e di senso, e di visioni e di pause, di cui il testo appunto straborda, anche a costo di sfidare la ricezione e la comprensione di un fiume verbale in piena. Non a caso è consuetudine tagliare ampiamente da parte di chi lo porta in scena, ampie porzioni del testo. Latella invece sceglie una assoluta fedeltà e necessità di darci ogni parola, tranne che in un paio di occasioni, tra cui la risolutiva scena finale, con i suoi morti successivi e una occupazione militare che chiude «politicamente» il testo originale. Quei momenti pur culminanti, vengono invece «raccontati» dall’attore che impersona Orazio, alter ego di Amleto, che come uno speaker da telegiornale ce ne fa la cronaca, a tratti volutamente saccentino, ma unico a indossare borghesi abiti contemporanei. Tutti gli altri vestono dapprima abbondanti completi bianchi, e verso la parte finale nere redingote barocche, quasi talari, a seconda dei movimenti.
In un orizzonte diradato tra l’enorme spazio scenico «vuoto» e il distanziamento degli spettatori, tutto pare dipanarsi in una sorta di vuoto pneumatico, di valori, desideri, iniziative. Che ci sono, ovviamente, ma circonvolute dentro la recitazione gridata da parte degli attori, anche di chi sembrerebbe meglio governare il corpo che la dizione. Tra tutti, bisogna dirlo, risulta comunque straordinaria la protagonista, Federica Rosellini, una donna nel ruolo di Amleto (tradizione per altro antica, da Sarah Bernhard in giù). La sua mancata identità maschile conferisce non solo ambiguità ma perfino mistero alla vicenda narrata. Ma lei, centro del mondo, della coscienza e del dolore (ma anche della furbizia e soprattutto della pazienza quando è costretta nell’ultima ora a dimenarsi in una buca di fango e terriccio da cui spuntano teschi) è il perno e il motore, e anche il «giudizio» di tutta la rappresentazione. Anche per lo spettatore, che preferisca rimanere tale senza sentirsi obbligato a indagare le molte congetture, i dubbi, citazioni e rimandi che Latella dichiara di voler disseminare.

L’ALTRA PERSONALITÀ, plurima nei ruoli come la maggior parte degli interpreti, è quella di un felice ritorno: Anna Coppola, che negli anni ha sedimentato una sicurezza e una capacità di espressione nei più svariati ruoli (lo Spettro del padre, l’attore, Fortebraccio…) davvero impressionante. Irresistibile quando, come fantasma del padre ucciso, abbindola tutti arrivando a un cha cha cha della segretaria… Per coprirsi poi di un lenzuolo, come fosse il pirata Barbanera…
La più impressionante e felice delle apparizioni (più che il parquet del pavimento fiammante dello Studio che si fa lago, fossa, ascensore per i vari personaggi), è invece costituita dall’arrivo dei comici, «impersonati» e rappresentati dai costumi di diversi celeberrimi spettacoli targati Piccolo: molto Strehler e Ronconi innanzitutto, che sfilano sui loro stender direttamente dai magazzini del teatro, evocandone un universale mondo, con le sue verità «incontrovertibili» seppur dietro la mascheratura di abiti e falpalà, capaci di svelare o raccontare un delitto più di qualsiasi indagine criminale. Più efficace sicuramente del tentativo di coinvolgere o responsabilizzare il pubblico, ordinandogli di alzarsi in piedi a comando, o peggio con l’infelice ironia sulle ore che ancora lo aspettano. Fino a battute extratestuali che svelano una evidente debolezza, ma che irridono «certi spettatori» che non sarebbero all’altezza di capire. Uno esce dal teatro senza pensare troppo al dilemma fatale: con la sensazione però che certi vezzi provocatori (di ascendenza futurista? Chissà), se evitati aiuterebbero a concentrarsi su un’operazione che resta impegnativa e ambiziosa, ma che si gioverebbe forse di una qualche asciugatura.