La sala Petrassi dell’Auditorium E.Morricone si trasforma in un luogo ‘altro’: qui il 26 novembre (ultima data del Roma Jazz Festival) la tradizione gnawa marocchina, la poliritmica percussione afroamericana, sax tenore e flauti suonati in un linguaggio jazzistico e di folclore immaginario hanno creato una dimensione interetnica, fortemente rituale e comunicativa. Il merito è del suonatore di gumbri nordafricano (residente a Londra) Simo Lagnawi, del 68enne batterista afroamericano Hamid Drake (un ‘faro’ percussivo per l’avanguardia nera) e del 39enne polistrumentista afrobritannico Shabaka Hutchings, eminenza della scena londinese e del jazz contemporaneo.Sono i discendenti, in questo trio, di una mondializzazione del jazz iniziata negli anni ‘60 che ha avuto fra i suoi protagonisti Don Cherry, trombettista sì ma anche suonatore del cordofono gumbri e di flauti come i molti che Hutchings ha utilizzato nel recital romano. Largamente improvvisato, il trio ha spesso seguito uno schema sonoro vincente: fase introduttivo-evocativa a tempo libero per corde, percussioni e sax tenore; ritmo scandito dal gumbri e tradotto in straordinaria poliritmia batteristica (con un magnifico lavorìo timbrico) e soli di sax coltraniani-ayleriani; accelerazione e fine. In alcuni brani la presenza dei flauti ha mutato e stemperato l’atmosfera, come quella di un tamburo a cornice, magistralmente suonato da Drake. In definitiva moduli tradizionali vivificati dall’improvvisazione e da variazioni personali ma, come ha spiegato il batterista, “la musica connette i popoli, è circolazione di energia, eleva il livello di coscienza ed è la forza guaritrice dell’universo”. Difficile dargli torto.

IN UN CERTO SENSO il recital del trio Hutchings/Lagnawi/Drake (insieme a quelli del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini e degli scandinavi Jan Bang & Eivind Aarset Trio) ben sintetizzano la filosofia di una rassegna (2-26 novembre) giunta alla sua 47ma edizione ma sempre tesa a catturare il nuovo. La parola-chiave “Transition” ha evidenti rimandi ecologici, socio-economici e tecnologici; secondo il direttore artistico Mario Ciampà se si è sfumata la linea di demarcazione fra jazz e altre musiche (dalla contemporanea al pop), si sta determinando a livello sonoro una “fusione unica in costante divenire che sfida le convenzioni e non ha paura di evolvere verso qualcosa di nuovo”, facendosi peraltro “portavoce di un messaggio di condivisione, integrazione e libertà.” I sei sold-out sembrano, peraltro, dargli ragione proprio nella loro varietà di orizzonti, pubblici e poetiche: Avishai Cohen Trio; Jazz Campus Orchestra diretta da Massimo Nunzi; Tony Levin’s Stick Men; l’eclettico bassista-compositore MonoNeon; Cecilia Sanchietti con il suo Swedish 5tet; John Scofield trio.Moduli tradizionali vivificati dall’improvvisazione e da variazioni personali ma, come ha spiegato il batterista, “la musica connette i popoli”

IN OGNI CASO questi sono i numeri della rassegna, realizzata con il contributo di Ministero della Cultura e Roma Capitale, prodotta da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma. Settemila gli spettatori in 22 concerti (15 al Parco della Musica, 5 alla Casa del Jazz e 2 al Monk); tre concerti riservati a bambini e ragazzi, altrettanti con musiciste leader (la Sanchietti, Anaïs Drago, Ilaria Capalbo). In totale sui palchi 97 artisti provenienti da 11 paesi tra cui Australia ed Israele, con una valida rappresentanza italiana, da Francesco Bearzatti a Raffaele Casarano.